SOCIETÀ

Quei padovani deportati ad Auschwitz

La marcia in memoria della deportazione degli ebrei, promossa dalla Comunità di S. Egidio e dalla Comunità ebraica, si tiene a Padova dal 2013 – settantesimo anniversario della deportazione degli ebrei italiani – il 3 dicembre, data dell’apertura del campo di Vo’ e inizio dell’internamento.

La data del primo dicembre, in cui si svolge l’edizione di quest’anno, coincide invece con quella della pubblicazione nel 1943 dell’ordinanza di polizia n. 5 della Repubblica sociale italiana, datata 30 novembre, che decretava il passaggio dalla persecuzione dei diritti (iniziata con le leggi razziali del 1938) alla persecuzione delle persone, secondo la nota distinzione di Michele Sarfatti. Si passava così dalla eliminazione progressiva dei diritti all’annientamento fisico degli ebrei, che dovevano essere arrestati e internati in appositi campi di concentramento, da cui poi, spesso prelevati direttamente dai tedeschi, sarebbero stati avviati ai campi di sterminio.

Fu allora che la caccia all’uomo iniziò a scatenarsi. Da tutte le questure d’Italia partirono gli ordini d’arresto: chi non era emigrato cercò disperatamente di nascondersi, o di fuggire clandestinamente in Svizzera, o di raggiungere a sud gli alleati che avanzavano. Le convocazioni e le retate spesso andarono a vuoto, e i telegrammi tra questure segnalavano che gli ebrei ricercati erano partiti “per ignota destinazione”. Ma tutti, anche i bambini più piccoli, furono inseguiti da speciali “avvisi di ricerca”.

I campi provinciali di internamento istituiti per gli ebrei furono una trentina, cui si deve aggiungere quello di Fossoli, inizialmente riservato ai prigionieri di guerra inglesi e divenuto dal 5 dicembre 1943, sotto diretto controllo tedesco, il principale campo di smistamento degli ebrei arrestati.

Gli ebrei padovani, che al censimento del 1938 risultavano circa 760, erano già molto diminuiti. Il loro numero crollò dopo l’8 settembre, con l’inizio dell’occupazione tedesca. Le liste della Questura, che monitorava costantemente la presenza ebraica, segnalavano ancora 450 circa presenze in città nel novembre del 1943, per lo più di ‘irreperibili’. Ma un elenco degli ebrei padovani con nomi, indirizzi e l’esatta composizione familiare era a disposizione del comando tedesco di Venezia già dal settembre del 1943.

Gli arresti in realtà erano iniziati ben prima dell’ordinanza di polizia n. 5. Caddero nella rete quelli che cercavano di scappare clandestinamente in Svizzera: come la famiglia Foà, i genitori Mario e Giulia e tre figli Giorgio, Giancarlo e Vittorio, di 16, 13 e 9 anni, arrestati dalla milizia confinaria fascista a Como il 25 novembre.

Tutti gli ebrei padovani arrestati avrebbero dovuto essere trasferiti al campo di Vo’, ma questo non sempre avvenne, i tedeschi scavalcavano le autorità della RSI ed agivano arbitrariamente. I Foà, prelevati dai tedeschi, il 6 dicembre furono mandati direttamente dal carcere di Milano ad Auschwitz, senza che la Questura fosse neppure informata. E così la loro sorte rimase a lungo ignota. Ester Colombo, di 16 anni, arrestata in provincia di Como il 2 dicembre, venne internata a Fossoli come Paolo Levi, arrestato a Chioggia il 5 dicembre. A Fossoli finirono anche i Ducci, famiglia padovana di origine ungherese, arrestata a Firenze.

Le storie di questi ebrei padovani si intrecciano con quella di Primo Levi. I Ducci, Paolo Levi ed Ester Colombo si trovavano internati a Fossoli nello stesso periodo di Levi: e nello stesso convoglio di Primo Levi Ester e Paolo partirono per Auschwitz, il 22 febbraio; i Ducci li avrebbero nel successivo. Inoltre sarebbe stato proprio Primo Levi, dopo il suo ritorno, a venire a Padova per raccontare la fine di Mario Foà (da lui conosciuto ad Auschwitz) e di tutta la sua famiglia al vecchio nonno sopravvissuto.

Oscar Coen, nato e vissuto sempre all’estero, era tornato in Italia per fare il servizio militare e combattere la prima guerra mondiale

Altri padovani catturati fuori provincia furono invece regolarmente trasferiti a Vo’, come la professoressa di lettere Gemma Bassani, arrestata a Roma il 16 dicembre, lo stesso giorno in cui fu arrestata al confine svizzero la famiglia Gesess, Elia, Ada e la piccola Sara, di sei anni: la bimba che la mamma tentò inutilmente di sottrarre alla retata tedesca e la cui vicenda dolorosa e struggente (raccontata da Sara Parenzo nel libro Il posto delle capre. Una storia familiare, Cierre ed., 2012), è divenuta quasi l’ immagine emblematica della tragedia collettiva del campo di Vo’.

Nel campo di Vo’ complessivamente transitarono 71 internati, alcuni dei quali poi rilasciati, fra il 3 dicembre 1943 e il 18 maggio 1944, data dell’ultimo ingresso, quello di Bruna Namias. Parecchi erano stranieri o sfollati da altre regioni. Tra i padovani rinchiusi troviamo anche i docenti dell’università di Padova Augusto Levi e Alberto Goldbacher. Il campo fu poi chiuso il 17 luglio con il rastrellamento e la deportazione ad Auschwitz dei 47 ebrei rimasti. Fra quelli che vi entrarono per primi c’era anche un uomo solo e “sconosciuto a tutti”, come lo definiscono le carte della Questura: Oscar Coen, 56 anni, di famiglia originaria di Padova ma nato ad Alessandria d’Egitto e vissuto sempre all’estero. Era però tornato volontariamente in Italia nel 1913 per fare il servizio militare (pur essendone esentato in quanto residente all’estero) e poi combattere da italiano nella prima guerra mondiale. Nel 1936 aveva voluto tornare a vivere “nel Comune d’elezione dei suoi avi”, trovando alloggio e sostegno presso la Comunità. Dal 1940 però era stato sempre internato in vari campi per ebrei stranieri e apolidi, istituiti quell’anno. Rispedito a Padova nell’agosto del 1943, fu arrestato il 19 novembre. Il suo fu forse il primo degli arresti dell’ondata persecutoria che si scatenò nell’autunno del 1943. Gli ultimi, sempre del numero degli ebrei della Comunità padovana uccisi, furono probabilmente quelli di Giuseppe Parenzo, prelevato dall’ospedale civile il 29 luglio 1944, e dei coniugi Cesare Pesaro e Margherita Vita, arrestati il 30 luglio ed entrambi finiti dopo pochi giorni ad Auschwitz.

Le 47 vittime padovane della Shoah sono ricordate nella lapide all’interno della Sinagoga di via delle Piazze, ora sede del Museo della Padova ebraica. Da qualche anno anche le Pietre d’inciampo hanno cominciato a segnare, qua e là nelle vie cittadine, una traccia del loro passaggio e del loro tragico destino, a monito oggi più che mai necessario.

L’ultima sopravvissuta degli ebrei padovani di Vo’, Sylva Sabbadini, è morta nel giugno scorso; era stata deportata a 13 anni con i suoi familiari: ad Auschwitz aveva perduto la nonna, mentre il padre e lo zio erano stati uccisi a Dachau, dove erano stati successivamente spostati. Sylva invece era tornata, con la madre Ester Hammer e con Bruna Namias.

La ricordiamo adesso anche con un documento della sua ultima presenza, bambina, nella scuola pubblica: il registro del 1940 che verbalizza la sua ammissione, da privatista, alla nuova scuola media (che non potrà frequentare) sotto la dicitura “razza ebraica”.

---- SPECIALE GIORNATA DELLA MEMORIA

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