CULTURA

Il ghetto, da luogo di esclusione a scrigno di cultura e di memoria

Nell’agosto 1603 per la prima volta venivano serrate, ad opera di un custode cristiano e di uno ebreo, le quattro porte che avrebbero delimitato il nuovo ghetto di Padova: l’unico spazio entro il quale da allora in avanti gli ebrei della città avrebbero potuto e dovuto vivere. Nel settembre del 1797 quegli stessi varchi furono finalmente spalancati con l’arrivo delle truppe napoleoniche: nel mezzo ci sono quasi due secoli di vita ebraica sempre in bilico tra convivenza ed esclusione, raccontati oggi dal nuovo libro di Stefano Zaggia Lo spazio interdetto: il ghetto ebraico di Padova, appena pubblicato da Padova University Press.

Quando il ghetto viene creato gli ebrei erano già presenti da tempo, chiamati dai Carraresi soprattutto per sostenere l’economia della città. Le attività erano quelle tipiche del credito e della strazzaria, mentre nella seconda metà del XIV secolo si collocano le notizie documentali di una sinagoga e di un cimitero. Contrariamente all’immagine di una Repubblica ‘laica’ e pragmatica, per gli ebrei padovani la situazione iniziò a peggiorare proprio con l’annessione a Venezia nel 1405: progressivamente venne loro tolto il diritto di possedere beni immobili e venne imposto un segno distintivo sui vestiti.

Intervista di Daniele Mont D'Arpizio, montaggio di Elisa Speronello

Iniziarono in quel periodo le difficoltà tra comunità ebraica e istituzioni cittadine, in particolare sulla questione della misura dei tassi di interesse applicati: nel 1455 i prestatori ebrei vennero addirittura espulsi, per poi essere riammessi nel 1467 con lo scopo di frenare gli illeciti e di venire incontro alle necessità della città, in particolare degli studenti dell’università. Nel 1491, con l’appoggio di fra Bernardino da Feltre e del vescovo Pietro Barozzi, venne istituto il Monte di Pietà di Padova, che in seguito avrebbe acquisito il monopolio del credito.

Proprio mentre alla comunità ebraica veniva a mancare una delle principali fonti di sussistenza, cresceva anche l’antiebraismo di matrice religiosa. Soprattutto dopo la promulgazione della bolla di Eugenio IV Dudum ad Nostram (1442) si moltiplicarono le pubblicazioni antigiudaiche da parte di teologi, canonisti, giuristi, ma anche umanisti. Così poco a poco si fece strada anche l’idea di confinare gli ebrei in una parte separata e controllata della città. “L’esclusione su base urbana in ambito italiano e veneto in particolare nacque a seguito di un evento che aveva coinvolto la città di Venezia, dove nel 1516 venne realizzato il primo ghetto”. Nella città lagunare la presenza di ebrei era da sempre contingentata: la Repubblica consentiva infatti la loro presenza solamente per alcuni periodi dell’anno. “A seguito della guerra contro la lega di Cambrai però molti ebrei provenienti dalle città di terraferma si rifugiarono a Venezia – spiega a Il Bo Live Stefano Zaggia, docente a Padova di storia dell’architettura –. Fu così deciso di assegnare loro un luogo specifico in cui risiedere, nel solco di quella che era già la politica veneziana nei confronti delle comunità straniere: un’isola che prima di allora ospitava una fonderia, ghetto o getto appunto. Deriva da qui il termine ghetto, che da toponimo col tempo passerà a indicare una zona separata e spesso anche degradata”.

Rispetto al modello veneziano la particolarità del ghetto padovano è di essere posto nel centro della città, a due passi dalle piazze e quindi fortemente connesso con il cuore economico e commerciale della città: qui a partire dall’inizio del XVII si concentrano le famiglie ebraiche fino ad allora disseminate nel resto della città. Gli edifici, secondo il principio secondo cui gli ebrei non potevano possedere immobili, appartenevano formalmente a proprietari cristiani, che dietro la corresponsione di un canone li assegnavano in perpetuo godimento agli abitanti del ghetto (gazagà); per gestire la vita della comunità venne inoltre creata un’Università degli ebrei, organismo di autogoverno che rappresentava anche giuridicamente e amministrativamente la minoranza ebraica con lo Stato e la società cittadina.

Il ghetto, nato per escludere e recintare, fu costretto a organizzarsi secondo logiche precise: una città nella città in cui gli ebrei godevano di una certa autonomia anche dal punto di vista urbanistico. Fu abbracciata una visione sorprendentemente moderna, incentrata sul coordinamento delle iniziative dei privati e sull'individuazione degli spazi pubblici (sinagoghe dei vari riti, bagno e macello rituali, cimitero, un alloggio per i viandanti forestieri). Un vero e proprio microcosmo che avrebbe influito in maniera determinante sullo sviluppo successivo della cultura ebraica.

Fino appunto alla conquista napoleonica, da cui iniziò un percorso inverso di assimilazione che avrebbe portato gli ebrei, soprattutto con il Risorgimento e i primi passi dell’Italia unificata, ad essere tra i protagonisti della vita civile ed economica della città e del Paese. A lungo il ghetto sarebbe diventato il simbolo di tempi bui, da condannare e a volte da rimuovere in nome della concordia nazionale. oggi, dopo aver sperimentato la barbarie antisemita, il recupero e la valorizzazione storica e urbanistica della presenza ebraica nelle città acquistano anche il significato di tutela e di trasmissione della memoria civile del Paese.

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