SOCIETÀ

L’eredità dei Levi Cases

A partire dal settembre 1938 le infami leggi razziali chiudono le porte delle scuole e delle università a ebrei: la caccia all’uomo però inizia già prima, quando i provvedimenti non sono ancora stati emanati ma sono già, per così dire, nell’aria. Il 20 agosto 1938 “Il Bò”, quindicinale del Guf (Gruppo Universitario Fascista), pubblica i nomi di tutti i professori ebrei in servizio presso l’Università di Padova. Una pubblica gogna alla quale viene sottoposto anche Armando Levi Cases, docente incaricato presso la facoltà di ingegneria: un’autorità internazionale in materia meccanico-siderurgica e nella metallografia, oltre nel campo delle motrici e degli impianti termici.

All’apparenza si tratta di una delle tante ferite nelle storie delle persone e in quella di un’istituzione che, come l’università, aveva fatto della libertà il suo motto. Eppure ancora oggi, a 85 anni di distanza, il nome Levi Cases è ben presente e vivo nell’università di Padova, per ragioni che però a molti rimangono non del tutto chiarite. Ci riferiamo ad esempio al Centro studi di Economia e Tecnica dell’Energia Giorgio Levi Cases, struttura di ricerca all’avanguardia che oggi coinvolge 52 gruppi di ricerca e 167 docenti, con l’obiettivo di promuovere la collaborazione interdisciplinare in un settore decisivo per l’economia e l’ambiente come quello dell’energia. Anche la storica dimora della famiglia Levi Cases, all’odierno numero 33 di via del Santo, ospita il Centro di Ateneo per la storia della Resistenza e dell'età contemporanea e il Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali intitolato a Marco Fanno, anch’egli cacciato dall’università nel 1938.

Cinque fratelli, quattro soldati, due ingegneri

Armando (nato a Padova nel 1879) e Giorgio (1882) sono rispettivamente il primo e il terzo di cinque fratelli nati da Giacobbe detto Giacomo e da Eloisa Jacchia: oltre a loro ci sono Edgardo (1881, morto dopo pochi giorni di vita), Alfredo Giuseppe (1883) e Gilberto (1897). Andando a ritroso, è stato il nonno Sabbato Levi (Padova, 1804 – 1865), a unire al proprio cognome quello della moglie Gemilla Cases, dando origine a un ramo famigliare che a fine Ottocento, forte di quattro eredi maschi sopravvissuti, promette di espandersi. Eppure nessuno dei fratelli Levi Cases si sposerà e avrà figli, e anche questo è un dettaglio non secondario nella storia che stiamo raccontando.

A fine dell’Ottocento i Levi Cases si presentano come una famiglia della medio-alta borghesia: lo testimonia il palazzo di oltre 1.400 metri quadri su una delle vie principali della città, anche se severo nell’aspetto e sprovvisto di una facciata appariscente. Nella tradizione familiare viene sicuramente data molta importanza allo studio e alla formazione: i ragazzi crescono avendo a disposizione una ricca biblioteca accumulata nel corso di generazioni, provvista di volumi che risalgono anche al Seicento. Così i quattro i fratelli studiano: Armando e Giorgio scelgono ingegneria industriale, frequentano a Padova per il biennio presso la facoltà di scienze e in seguito conseguono la laurea al prestigioso politecnico di Torino. Alfredo si ferma alla maturità di ragioniere per poi intraprendere la carriera militare, mentre Gilberto, il piccolo di famiglia, all’inizio si iscrive a giurisprudenza ma poi, dopo la chiamata alle armi, chiede il passaggio a medicina. Riceve il battesimo del fuoco sulla Marmolada come aspirante ufficiale del 7° Battaglione Alpini, in seguito prende parte alla ritirata dopo Caporetto. A fine 1917 viene inviato sul Grappa al comando di un plotone di arditi esploratori, dove il 16 dicembre trova la morte durante uno scontro sul Col Caprile. In seguito gli viene attribuita una medaglia d’argento al valor militare e la laurea ad honorem.

Armando dopo la laurea si è perfezionato per un anno a Zurigo, poi nel 1909 è assunto alle acciaierie di Piombino, polo siderurgico di primaria importanza, come capo del laboratorio e responsabile dei collaudi. Ufficiale di complemento di artiglieria, durante la guerra viene inviato in Francia per studiare gli impianti di produzione bellica, per poi essere aggregato all’Ufficio militare centrale controllo acciai (U.m.c.c.a.) ricevendo la promozione a capitano. In seguito si occuperà soprattutto di motori a gas e Diesel, pubblicando diversi studi e depositando brevetti in Italia e non solo. Finché, superati i cinquant’anni, va anche a insegnare all’università, certo più per passione che per necessità, ricevendo l’incarico di docente di "Impianti industriali meccanici".

Giorgio infine svolge quasi tutto il suo percorso professionale a Roma, dove sin dalla sua fondazione nel 1912 è una figura di spicco dell'Azienda Elettrica Municipalizzata (futura ACEA). Qui come ingegnere capo si segnala come uno dei dirigenti più capaci, in grado di mettere letteralmente in piedi, grazie a dettagliati studi tecnico-economici e statistici, un sistema di controllo all’avanguardia sulle tariffe e i costi di produzione e di distribuzione. Nel 1936 viene nominato cavaliere dell’ordine della corona d'Italia, coronamento di una carriera di tutto rispetto in una delle aziende pubbliche più importanti d’Italia.

La persecuzione e il ritorno

Nel 1938 sui tre fratelli rimasti si abbattono le leggi razziali, stravolgendo le loro vite. Alfredo, che nel censimento razziale risulta residente a Milano, il 1° gennaio 1939 viene collocato in “congedo assoluto”: una sorte comune a quella di quasi tutti i veterani e i militari ebrei, molti dei quali finiranno nelle mani dai nazifascisti. Giorgio viene collocato forzatamente a riposo il 1° marzo seguente, con una liquidazione di circa 160 mila lire, mentre ad Armando non viene semplicemente rinnovato l’incarico di insegnamento.

Da questo momento in avanti la loro vita ai nostri occhi viene come ricoperta da uno strato di nebbia. Costretti a lasciare i loro lavori e i loro ambienti, sia Armando che Giorgio vengono persino radiati da società e circoli culturali e scientifici. La società li ignora: dei brillanti fratelli Levi Cases non si deve più parlare. Poi, quando dopo l’8 settembre 1943 le armate tedesche invadono l’Italia del nord, si passa dalla discriminazione al vero e proprio tentativo di annientamento.

Armando, Giorgio e Alfredo riusciranno tutti a vedere la fine della guerra: poco o nulla però conosciamo di come riescano a sfuggire alla follia genocida. L’unica cosa che sappiamo è che Armando, il maggiore, il professore, riesce a nascondersi presso l’abbazia benedettina di Praglia, a pochi chilometri da Padova. Nel monastero alla fine del 1943 trovano rifugio una ventina di ebrei, tra cui l’insigne collega ed economista Marco Fanno assieme alla moglie. Poi gli altri fuggono per timore delle retate: così, all’inizio del 1944, Armando Levi Cases rimane solo a vivere nei chiostri assieme ai monaci, nella zona dedicata alla clausura e virtualmente chiusa ai visitatori esterni. Ci resterà quasi un anno e mezzo, fino al 4 giugno 1945.

Poco sappiamo anche dei tre fratelli dopo la fine della guerra. Alfredo muore per cause sconosciute nel 1947. Crepacuore? Non sarebbe un caso isolato: così ad esempio si è spento a Roma qualche anno prima il grande matematico Tullio Levi Civita, solo e abbandonato da tutti. Da quanto risulta dai documenti forniti dall’archivio storico dell’Acea Giorgio viene reintegrato nell’Aem e nel settembre 1945 partecipa ai lavori della Commissione Amministratrice, ma non in qualità di membro bensì di rappresentante del personale. Il 13 novembre 1945 risulta una sua promozione e alla fine del 1946 se ne propone, senza successo, la nomina a vicedirettore in previsione del suo pensionamento, che avviene il 30 aprile 1947.

La lungimiranza della generosità

Armando muore nella sua casa di Padova il 2 dicembre 1952. L’università di Padova, nella persona del rettore Guido Ferro, manda anche un telegramma di condoglianze e negli archivi dell’ateneo è rimasta anche la risposta di Giorgio, grato per la solidarietà e per l’apprezzamento “tanto più caro, in quanto l’attività didattica – che era venuta a coronare tutta una vita di studio e di lavoro – costituiva per il mio compianto fratello una luminosa meta professionale”. Giorgio a sua volta muore nel 1969 a Roma a 87 anni, ultimo esponente dei Levi Cases.

Amici, parenti e conoscenti si domandano a chi finirà l’importante patrimonio, e quando due giorni dopo il testamento viene infatti aperto probabilmente più di qualcuno rimane deluso: erede universale dei Levi Cases viene infatti nominata l’università di Padova, salvo qualche disposizione a favore di singoli e istituzioni. Un milione di lire viene ad esempio lasciato alla comunità israelitica di Padova e mezzo milione alla parrocchia di San Francesco, perché siano usati per la beneficienza. Un milione viene inoltre devoluto all’abbazia di Pragliaper l’incremento della sua biblioteca”, assieme a “tutti i libri, anche sacri, ovunque essi si trovino”. Difficile non vedere in quest’ultima disposizione la volontà di Armando, i suoi racconti degli anni di angoscia confortati dalla possibilità di accedere alla biblioteca del monastero e probabilmente anche dall’amicizia con il bibliotecario, il futuro abate don Isidoro Tell. Al Civico Museo di Padova vengono infine lasciati alcuni dipinti, più un’importante collezione di francobolli valutata decine di milioni di lire.

Il patrimonio viene devoluto “affinchè siano fondati, in seno all’Istituto di Elettrotecnica della [Facoltà di Ingegneria], un Istituto e una Scuola di Economia energetica e comprende il palazzo in via del Santo oltre a denaro contante, beni mobili e titoli azionari, obbligazioni e titoli di Stato, per un valore complessivo stimato in oltre 476 milioni di lire: oltre quattro milioni di euro al cambio attuale, che già a partire dall’inizio degli anni ’70 permetterà al Centro Levi Cases di sorgere e di funzionare. Un settore che del resto Giorgio ha imparato a conoscere molto bene grazie all’ultracinquantennale esperienza nel campo: negli archivi del è rimasto un promemoria manoscritto in cui vengono tracciate le caratteristiche del futuro centro d’eccellenza, basato su una formazione concreta e multidisciplinare. Giorgio è convinto che per affrontare le sfide dello sviluppo l’Italia debba scommettere soprattutto sulla ricerca e la formazione. Come aveva sempre fatto la sua famiglia, i Levi Cases, che all’Italia aveva offerto le vite, le intelligenze e il lavoro dei suoi figli, e nonostante questo era stata umiliata e perseguitata.

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Si ringraziano Antonella De Robbio, Remigio Pegoraro, Alberto Bertucco e Paolo Mattavelli (Centro Giorgio Levi Cases) Giulia Simone, Mariana Simone e Francesco Santamaria (Università di Padova, Area patrimonio), David Ottaviano e Umberto Livadiotti (Acea), Gadi Luzzatto Voghera e Laura Brazzo (Archivio storico Fondazione CDEC), Ghila Pace (Archivio della Comunità israelitica di Padova), Stefano Annibaletto e Chiara Fabris (Musei Civici di Padova). Con la collaborazione del Centro per la storia dell’Università di Padova.

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