La conferenza di Évian
Évian-les-Bains (Francia), 6 luglio 1938.
Ottant’anni fa.
Sulla soglia dell’Hotel Royal della cittadina termale che affaccia sul Lago Lemano, il senatore Henri Bérenger accoglie, a nome del governo di Francia, «terra d’asilo e di libera discussione […] fedele alle sue più antiche tradizioni di ospitalità universale», le delegazioni ufficiali di 32 paesi aderenti alla Società delle Nazioni e inaugura la Conferenza internazionale sull’emergenza rifugiati.
La conferenza è fortemente voluta dal presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt. Il tema è: come trovare una soluzione all’emergenza creata dalle leggi razziali in Germania.
Il problema investe soprattutto la comunità ebraica, che conta 600.000 persone nella Germania propriamente detta e altre 250.000 persone nell’Austria appena annessa da Hitler. Le discriminazioni e le persecuzioni sono già in atto. Riguardano in primo luogo la Germania. Ma non coinvolgono solo la Germania. Campagne antisemite sono in corso in Polonia, Romania. A fine maggio l’Ungheria ha adottato leggi razziali. L’Italia si appresta a farlo. Gli ebrei hanno da temere ormai in mezza Europa. E l’unica alternativa che vedono a quelle infami azioni è migrare.
I nazisti non sono del tutto contrari. D’altra parte nel corso degli anni precedenti, a partire dal 1933 – l’anno del varo delle prime leggi razziali a opera di Hitler – la Germania, per estremo paradosso, è stata l’unica nazione a favorire la migrazione degli ebrei. Tutte le altre nazioni – anche quelle democratiche, soprattutto quelle democratiche – hanno tentato, in un modo o nell’altro, di impedirlo.
Che la Germania sia ancora in una fase di “cacciata degli ebrei”, lo dimostrerà a breve: a fine settembre, per la precisione, dopo l’occupazione dei Sudeti. Il governo tedesco ordina l’espulsione degli ebrei dalle zone occupate. Ciò che resta della Repubblica ceca spinge i profughi verso l’Ungheria. I magiari li rimandano in Germania. I tedeschi li rifiutano. I profughi ebrei dopo questo tragico esodo troveranno rifugio, infine, in una sorta di campo di accoglienza, nella terra di nessuno, al confine tra Ungheria e Cecoslovacchia.
“ I profughi ebrei dopo questo tragico esodo troveranno rifugio, infine, in una sorta di campo di accoglienza, nella terra di nessuno, al confine tra Ungheria e Cecoslovacchia
Ma ritorniamo di tre mesi, a inizio luglio. Anche in vista della conferenza di Évian, la comunità ebraica internazionale ha già avanzato molte proposte per tentare di risolvere il problema. La prima è di natura politica: la condanna esplicita da parte della comunità internazionale della Germania nazista per le politiche di discriminazione razziale. La seconda è pratica: agevolare la migrazione verso la Palestina, superando le soglie troppo esigue rispetto alla domanda imposte dal Regno Unito, che ha un Mandato della Società delle Nazioni su quelle terre. Ancora: consentire agli ebrei di portare in Palestina tutti i propri averi. Infine: creare un’organizzazione internazionale per finanziare l’emigrazione. In definitiva, gli ebrei che abitano nei paesi liberi chiedono che la questione dei richiedenti rifugio venga internazionalizzata. Che diventi un problema europeo e mondiale.
Anche il presidente degli Stati Uniti, Franklin D. Roosevelt, è su una lunghezza d’onda analoga e ha spinto per organizzare la Conferenza sul lago Lemano: che la comunità internazionale si assuma le proprie responsabilità e accetti i migranti e gli aspiranti migranti discriminati, con una formula di ripartizione tra tutti i paesi in base alle loro dimensioni.
“ Sembra la soluzione più semplice. Il mondo è grande e meno di un milione di migranti non costituiscono davvero un problema
Eppure la proposta di Roosevelt ha molte difficoltà da superare. I paesi liberi e democratici da questo orecchio non ci sentono. Tutti hanno paura di pochi migranti.
Certo, dopo il 1933 e l’emanazione delle prime leggi razziali da parte di Hitler, un certo numero di ebrei si è reso conto che è meglio lasciare la Germania. Partono in 30.000, trovando rifugio nei paesi vicini: in Svizzera, Francia, Belgio Olanda, Danimarca, Cecoslovacchia. Ma nei mesi e negli anni successivi la domanda d’espatrio aumenta e questi e altri paesi reagiscono alzando barriere, attraverso cui solo quote minoritarie di migranti ebrei possono passare.
Insomma, la reazione di quasi tutti i paesi liberi e democratici è: solidarietà agli ebrei, purché non vengano in casa mia.
Come dimostra quella Svizzera che ha rifiutato di ospitarla, la conferenza proposta da Roosevelt: siamo o vogliamo essere solo un paese di transito, dicono gli elvetici. Non siamo disponibili ad accogliere gli ebrei. Non vorremmo, accettando di ospitare la conferenza, che qualcuno si facesse illusioni.
La Svizzera è davvero inflessibile su questo. Non li vuole, quei migranti, di fatto forzati. Dopo l’Anschluss, l’annessione alla Germania che l’Austria militarmente occupata ha ratificato con un referendum plebiscitario il 10 aprile, Berna ha inasprito anche le norme del “transito” degli ebrei, imponendo che sul passaporto di quelli in uscita dalla Germania venisse apposta ben visibile e in colore rosso, una grande J: Jude.
No, lo stigma per gli ebrei non è solo in Germania.
Quanto alla liberale Inghilterra, si presenta a Évian-les-Bains confermando che le soglie per le migrazioni degli ebrei in Palestina non possono essere in alcun modo superate. Né accetta che essi – se non hanno un’alta qualifica professionale – possano trovare riparo nelle isole britanniche. Non sono solo attestazioni di principio. Desta scalpore, per esempio, la decisione di un giudice, Herbert Metcalfe, che condanna al carcere e ai lavori forzati tre ebrei – un fotografo nato in Russia, di un sarto polacco e di una barista di Berlino – cosiddetti apolidi, raccomandando la loro deportazione.
Gli apolidi sono gli ebrei naturalizzati tedeschi dopo la Prima guerra mondiale. Appena salito al potere, già a fine gennaio 1933, Hitler ha revocato la concessione della cittadinanza germanica. Ora nessuno di loro appartiene a una nazione e ha diritto a un passaporto. Sono, appunto, apolidi. Alcuni cercano rifugio in Inghilterra. Così Herbert Metcalfe difende la sua decisione: "Stava diventando uno scandalo il modo in cui gli ebrei apolidi ci stanno inondando passando da tutti i porti di questo paese".
“ Tutti i paesi liberi e democratici hanno adottate norme protezionistiche contro gli stranieri
Non molto meglio vanno le cose in Francia, per la verità. Tutti i paesi liberi e democratici hanno adottate norme protezionistiche contro gli stranieri. Già nel 1932 il paese che ospita la conferenza a Évian ha iniziato a tradire le «sue più antiche tradizioni di ospitalità universale» e ha introdotto sia disposizioni che privilegiano i lavoratori francesi sia soglie alla presenza di stranieri nelle industrie nazionali.
Prima la Francia.
Non è da meno la grande stampa internazionale. Sia nel fomentare paure – chissà cosa succederà lasciando via libera ai migranti ebrei (e rom) – sia facendo da cassa di risonanza a chi semina pregiudizi, luoghi comuni e odio per gli ebrei (e i rom). Tra questi giornali ci sono gli inglesi Daily Express e il Sunday Express, il canadese The Globe and Mail.
Non possiamo accoglierli tutti, tuona il Daily Express. Occorre prendere una posizione netta "visto che è in atto una potente mobilitazione per accoglierli in massa senza obiezioni e selezioni". Ma una simile politica – buonista, diremmo oggi – si rivelerebbe un boomerang "perché aiuterebbe gli inglesi che alimentano la propaganda antisemita". Il giornale, non senza ipocrisia, sostiene che l’ingresso in massa (qualche centinaio o migliaio di persone) di "stranieri, quasi tutti di estrema sinistra" farebbe le fortune della destra britannica. La gente potrebbe chiedersi: "Cosa succede se anche la Polonia, l’Ungheria, la Romania espellono i loro cittadini ebrei? Dobbiamo accettare anche loro? Poiché non vogliamo tumulti antiebraici, dobbiamo dimostrare buon senso e non ammettere tutti i richiedenti asilo".
Alcuni giornali, come gli statunitensi Harper’s Magazine e Fortune, giungono a chiedersi se non ci sia anche una qualche corresponsabilità degli ebrei nella situazione tedesca. Insomma, se la sono cercata.
“ È davvero sorprendente trovare logiche e argomentazioni che molti propongono anche oggi verso altri “richiedenti asilo”.
E in effetti, fino al luglio 1938, erano moltissimi gli ebrei che fanno la fila presso le ambasciate e i consolati a Berlino e a Vienna per ottenere un visto. La gran parte si vede respingere la richiesta. I paesi democratici si giustificano così: c’è il rischio che gli ebrei tolgano lavoro ai nostri operai e ai nostri commercianti. Suscitando proteste sociali. Le domande vengono respinte, soprattutto quelle che chiedono un visto turistico. Di tanto in tanto viene concesso a qualche illustre studioso, grazie alla solidarietà della comunità intellettuale internazionale.
Ma torniamo, ancora una volta, a Évian-les-Bains. La conferenza, iniziata il 6 luglio procede fino al 15. In nove giorni di confronto, gli egoismi nazionali non vengono superati, ma, se possibile, acuiti. Le grandi potenze, non solo la Gran Bretagna e la Francia, ma anche gli Stati Uniti di Roosevelt, si oppongono all’idea dell’immigrazione illimitata. Noi abbiamo giù raggiunto il punto di saturazione, sostiene il rappresentante della Francia. Noi non possiamo allargare le maglie degli ingressi in Palestina, incalza il rappresentante di Sua Maestà Britannica.
Ancora più acidi sono le medie potenze. "Per noi uno solo sarebbe di troppo", risponde il delegato del Canada a chi gli chiede: su base volontaria, quanti migranti ebrei potete accogliere?
"Noi non abbiamo nessun vero problema razziale in Australia e non siamo disposti a importarlo e favorire una vasta immigrazione straniera", gela un po’ tutti il colonnello Thomas White, rappresentante dell’Australia.
E sì che né il Canada né l’Australia hanno problemi di spazio o di affollamento. Il Messico, la Danimarca e l’Olanda acconsentono a dare asilo a qualche centinaio di ebrei. La verità è che tra i 32 paesi convenuti, solo la Repubblica di San Domingo e la Bolivia accettano una quota di immigrati soddisfacente (sulla base della grandezza e della popolazione dei due paesi). Santo Domingo ne ospiterà 10.000 cui, due anni dopo, il generale Rafael Leonidas Trujillo regalerà 26.000 acri di terreno. La Bolivia, invece, entro tre anni darà rifugio a 30.000 ebrei.
In definitiva, l’unico risultato della Conferenza di Évian-les-Bains è la creazione del Comitato Intergovernativo per i rifugiati (IGC), che nel corso di 12 mesi si riunirà tre volte senza cavare un ragno dal buco. Poi lo scoppio della Seconda guerra mondiale, l’1 settembre 1939, farà passare tutto in secondo piano.
Morale: di fronte al dramma che si sarebbe trasformato nella peggiore tragedia della storia, i rappresentanti dei paesi liberi e democratici partiranno da Évian il 15 luglio senza nessun alcun accordo, se non quello di mantenere le quote e le modalità di immigrazione già esistenti.
Gli ebrei sono stati traditi.
La storia successiva è nota. Tra il 9 e il 10 novembre è la “notte dei cristalli”: una vera e propria caccia all’ebreo. La spinta a migrare diventa disperata.
No, i permessi di espatrio concessi dai nazisti non bastano. Lo scoglio da superare sono spesso – troppo spesso – i permessi di transito e quelli di ingresso nei paesi di accoglienza. Decine, centinaia di migliaia non li ottengono. Prendiamo il caso degli Stati Uniti di Roosevelt, il paese tutto sommato più generoso. Le statistiche ci dicono che, prima dell’inizio della guerra, i profughi ebrei che raggiungono gli Usa sono 85.000. Ma le domande, a tutto il mese di giugno 1939, erano state più di 300.000.
Quanto alla Francia, «terra d’asilo e di libera discussione […] fedele alle sue più antiche tradizioni di ospitalità universale», nel febbraio 1939 rimanderà indietro gli ebrei che la Germania tenta di espellere. Quasi tutti moriranno a Dachau.
No, davvero i migranti ebrei non sono stati aiutati dai paesi liberi e democratici: la loro unica speranza. E per questo molti hanno pagato con la vita.
Un episodio spiega più di diverse analisi.
Il 13 maggio 1939, dal porto di Amburgo salpa un transatlantico. Si chiama St. Louis. A bordo ha 937 profughi, quasi tutti ebrei. Il comandante, un eroico capitano tedesco, Gustav Schröder, li vuole salvare, mettendo a rischio il suo lavoro e la sua libertà.
Così il St. Louis attraversa l’Atlantico e attracca a Cuba. Solo in 22 riescono a scendere. Tutti gli altri sono respinti.
Gustav Schröder fa allora rotta verso gli Stati Uniti. Respinti.
La nave fa rotta verso il Canada. Respinti.
Sono clandestini, non hanno diritti.
Si ritorna in Europa. Il Belgio concede l’attracco nel porto di Anversa. A patto che ci sia un’equa ripartizione di quei profughi senza diritti. Il 17 giugno 1939, un mese e quattro giorni dopo la partenza, ai clandestini sfiniti viene concesso finalmente di sbarcare. L’Inghilterra ne accoglie 288, la Francia 224, l’Olanda 181 e il Belgio stesso 214. Di questi sopravvivono alla guerra solo in 365. Il resto muore. Molti nei campi di sterminio di Auschwitz e di Sobibor.