SCIENZA E RICERCA

Dal laboratorio al piatto: come si produce e perché la carne coltivata

Stesso tema, due provvedimenti opposti a distanza di poco tempo: se negli Stati Uniti a giugno il Dipartimento dell'Agricoltura ha dato il via libera alla produzione e vendita di carne coltivata in laboratorio, in Italia il Senato ne ha invece recentemente vietato la produzione e importazione e ha, altresì, proibito l’uso del termine “carne” per i cibi che derivano da proteine vegetali. 

Se ne parla ormai da anni e ad oggi sono più di 100 le aziende in tutto il mondo che lavorano proprio per portare la carne coltivata sul mercato. Nel 2013 è stato presentato al mondo il primo hamburger di manzo a base cellulare. Nel dicembre 2020, sono state approvate a Singapore le crocchette di pollo ottenute nello stesso modo. Consumare carne coltivata è possibile anche in Israele e nei Paesi Bassi. E ora è la volta degli Stati Uniti. In Italia, sebbene al momento ci si muova in altra direzione, uno studio condotto da Maria Cecilia Mancini dell’università di Parma e da Federico Antonioli dell’università della Tuscia ha rilevato tuttavia che, su un campione di 525 italiani, più della metà (54%) sarebbe disposto a provare la carne coltivata.

Ma cerchiamo di capire meglio come viene prodotta. “Da un punto di vista tecnico - spiega un gruppo di ricercatori su Nature Italy ricorrendo a un esempio molto chiaro -, la carne coltivata si ottiene con un processo analogo a quello con cui si prende il germoglio di una pianta e lo si fa crescere in una serra. Con la differenza che il germoglio, in questo caso, è una piccola biopsia o un prelievo di sangue da un animale da allevamento, e la serra è un coltivatore, un ambiente sterile con temperatura e apporto di nutrienti controllati, non molto diverso dai fermentatori usati per la birra, il vino, il formaggio e lo yogurt. Il processo viene quindi spesso definito ‘agricoltura cellulare’”. Gli autori aggiungono che questo tipo di carne può essere prodotta senza l’uso di antibiotici a cui solitamente si ricorre negli allevamenti tradizionali e che non è contaminata da eventuali microplastiche o metalli pesanti tossici come il mercurio. 


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A valutare la sicurezza alimentare dei nuovi prodotti è l’Efsa, mentre sono le autorità di regolamentazione dell’Unione Europea, cioè la Commissione europea e gli Stati membri, ad autorizzarne l’immissione sul mercato, vagliando oltre alla sicurezza del cibo in questione anche aspetti economici, sociali o di altro tipo. L’Efsa non ha ancora ricevuto richieste  di valutare alimenti che derivino da cellule animali in coltura (almeno fino allo scorso maggio). Wolfgang Gelbmann, senior scientific officer, riferisce che sono stati valutati però diversi nuovi ingredienti alimentari prodotti attraverso la fermentazione di precisione, una tecnologia che utilizza microrganismi come lieviti, batteri o funghi per produrre proteine, oligosaccaridi del latte identici a quelli umani, vitamine o fibre. La Commissione europea, da parte sua, ha già dichiarato che la pratica delle colture cellulari potrebbe contribuire al raggiungimento degli obiettivi della strategia Farm to fork che ha lo scopo di accelerare il passaggio a sistemi alimentari equi, sani e sostenibili dal punto di vista ambientale. 

Del tema si stanno occupando anche la Fao e l’Organizzazione mondiale della Sanità che, in un rapporto pubblicato quest’anno (Food safety aspects of cell-based food), hanno preso in esame la sicurezza di questo nuovo tipo di cibo, considerando maturi i tempi per avviare una discussione sui potenziali benefici e svantaggi della produzione di alimenti a base di cellule.

L’impatto della produzione di carne tradizionale sull’ambiente è un tema noto e ampiamente discusso. Un rapporto, citato da Nature e pubblicato nel 2021 da ricercatori dell’università di Oxford (The climate impact of alternative proteins), riferisce che la produzione di cibo è responsabile di oltre il 26% delle emissioni di gas serra l’anno: se le emissioni globali ammontano a circa 52 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente, quasi 14 derivano dal settore alimentare. Di questa porzione, i prodotti di origine animale (carne, pesce, latticini, uova e così via) costituiscono il 60%, mentre quelli di origine vegetale il 40%. E si aggiunga un dato ulteriore: a livello globale, sono 80 miliardi gli animali che muoiono ogni anno per produrre cibo. 

La produzione di carne in laboratorio viene studiata dunque come possibile alternativa sostenibile al sistema agricolo zootecnico tradizionale, anche in considerazione di una popolazione mondiale in continuo aumento che si stima raggiungerà i 9-11 miliardi di abitanti entro il 2050. Questa nuova tecnologia presenta indubbi vantaggi, su tutti il basso utilizzo di suolo e acqua. Ma rimangono ancora questioni aperte e aspetti da migliorare, come i metodi di crescita delle cellule in coltura, il gusto e la consistenza, la logistica di produzione, il fabbisogno energetico che attualmente è particolarmente elevato. 

Secondo quanto riporta Nature, per sostituire il 10% dei circa 300 milioni di tonnellate di carne convenzionale consumati ogni anno a livello globale, per esempio, potrebbe essere necessaria la costruzione di centinaia di migliaia di bioreattori. Il consumo di energia al momento costituisce un problema, tuttavia - secondo uno studio coordinato da Pelle Sinke - facendo ricorso a fonti rinnovabili l’impronta di carbonio della carne coltivata potrebbe essere inferiore a quella della carne convenzionale. 

Pure sui costi va fatta qualche considerazione. Le versioni attuali di carne coltivata, dichiara Sinke, sono da centinaia a decine di migliaia di volte più esose di quella ottenuta in modo tradizionale. Anche per questo i ricercatori stanno studiando le varie fasi del processo di produzione e analizzando un’ampia varietà di cellule di partenza che possono crescere a velocità o densità differenti e producono consistenze e profili nutrizionali differenti. Dell’intero processo la parte che richiede più dispendio di denaro sono i “nutrienti” necessari alle cellule per crescere in laboratorio: le attuali forniture commerciali di specifici fattori di crescita possono costare milioni di dollari al grammo, poiché si tratta di un prodotto di nicchia realizzato secondo standard farmaceutici in piccole quantità. Anche in questo caso si stanno cercando alternative, studiando prodotti più economici a base vegetale. 

Entro il 2050 si prevede che la domanda globale di carne salirà del 35%, da un lato per  l’aumento della popolazione, dall’altro per una maggiore richiesta di carne che si ritiene essere associata all’aumento di reddito previsto con la crescita della classe media mondiale. Per questa ragione si sta guardando con interesse alla possibilità di produrre fonti proteiche alternative che potrebbero potenzialmente garantire la sicurezza dell'approvvigionamento a una popolazione mondiale sempre più numerosa, nel rispetto dell’ambiente. Oltre alla carne coltivata, si stanno quindi considerando le proteine tradizionali di origine vegetale (come il tofu, le noci, i piselli, i fagioli), gli insetti, le micoproteine (ottenute dai funghi mediante fermentazione), le alghe (la spirulina per esempio), e le proteine derivate da batteri. 

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