SOCIETÀ

L’impatto dell’industria della carne, tra questioni etiche e interessi economici

Seguendo una parabola molto simile a quella verificatasi nel campo dei combustibili fossili, dagli anni ’60 ad oggi per la produzione di carne si sono registrati un vertiginoso aumento in termini assoluti (la produzione mondiale è quadruplicata nell’arco di soli cinquant’anni) e, al contempo, un evidente spostamento di equilibri nella distribuzione mondiale della produzione e del consumo. Se, infatti, nel 1961 i principali attori dell’industria zootecnica erano Europa e Stati Uniti (detentori del 42 e 25% del mercato, come riportano le statistiche di Our World in Data), oggi il principale produttore di alimenti animali è il continente asiatico, a cui va attribuito il 40-45% della produzione, contro l’attuale 19 e 15% di Europa e U.S.A.

Ma da un punto di vista globale, come dicevamo, la produzione di carne ha continuato a crescere a ritmi vertiginosi, di pari passo con la crescita della popolazione mondiale e con il parallelo accesso di un numero (fortunatamente) sempre maggiore di persone a un tenore di vita più alto.

Sembra una buona notizia: la possibilità di mangiare carne e altri prodotti animali è importante per una dieta varia e sana, e il fatto che questa industria si espanda e i prodotti animali siano accessibili a una platea più ampia potrebbe indicare un avanzamento in termini di salute globale e di diritti. Purtroppo, invece, è tutto il contrario.

Me spiego: da li conti che se fanno seconno le statistiche d'adesso risurta che te tocca un pollo all'anno: e, se nun entra nelle spese tue, t'entra ne la statistica lo stesso perch'è c'è un antro che ne magna due. Da "La Statistica", Trilussa

Innanzitutto perché, come insegna la storia dei polli di Trilussa, il fatto che la produzione mondiale aumenti non implica che l’intera popolazione umana mangi più carne e derivati animali. Per comprendere l’entità della diseguaglianza distributiva, bisogna guardare ai dati relativi al consumo pro capite: se, in media, il consumo individuale di carne è raddoppiato dagli anni ’60 ad oggi, le statistiche mostrano una grande variabilità tra le diverse nazioni. Il divario tra i Paesi ad alto reddito e le nazioni più povere è infatti profondissimo: l’Australia detiene il primato, con 116 kg di carne a persona l’anno, mentre in diversi Stati africani il consumo non supera i 10 kg a testa l’anno, e la media continentale è di circa 20 kg. Come al solito, il nodo problematico non è la disponibilità di risorse, ma la loro redistribuzione.

Il problema di giustizia distributiva è solo una fra le tante questioni etiche sollevate dall’industria zootecnica. Innanzitutto, risalendo l’intera catena produttiva emerge con forza la grande questione ambientale legata all’allevamento: l’industria della carne ha un’impronta ecologica pesantissima.

Questioni etiche

Guardando soltanto alle emissioni di gas climalteranti legate a questa complessa filiera produttiva, scopriamo che il suo impatto è enorme: tra i diversi settori produttivi del sistema alimentare globale – che, nel complesso, genera il 26% delle emissioni annue mondiali (percentuale che salirebbe addirittura al 34%, secondo un recentissimo e dettagliato studio) – l’industria zootecnica pesa, insieme a quella ittica, il 31%.

Questa stima, però, non prende in considerazione l’impatto delle attività agricole che alimentano – letteralmente – gli allevamenti. I dati sono piuttosto impressionanti: circa il 50% di tutte le terre abitabili del pianeta è coltivato; di questo 50%, ben il 77% è destinato alla produzione di cibo per animali da allevamento, e solo il 23% genera prodotti destinati al consumo diretto. Per di più, da quel minoritario 23% la popolazione mondiale trae l’82% dell’apporto calorico, mentre il 77% di terreni agricoli che producono mangimi si trasformano, alla fine del lungo processo produttivo, in carne, uova e latticini che forniscono solo il 18% delle calorie necessarie per la popolazione globale.

Dunque, si tratta di continuare a far funzionare – con gran dispendio economico, tra l’altro – un’industria altamente dannosa dal punto di vista ambientale, e che, a ben guardare, è anche poco funzionale. Seguendo il processo produttivo della carne, ci si rende conto che esso porta con sé un grande dispendio energetico. Prendiamo la carne di manzo, il prodotto dal più alto impatto ambientale: per produrne 1 kg sono necessari 25 kg di mangime; delle calorie assunte dall’animale, solo l’1,9% rimane disponibile nel prodotto finale, mentre il resto è perso nel processo di conversione; la stessa sorte tocca alle proteine, di cui solo il 3,8% di quelle presenti nei 25 kg di mangime utilizzato sono presenti nel prodotto finale. Si tratta di un caso limite, certo. Guardiamo quindi alle uova, il prodotto d’origine animale che ha il minor peso sull’ambiente: 2,3 kg di mangime per produrre 1 kg di uova; il 75% delle proteine e l’81% di calorie vanno perduti nel processo di conversione. Anche in questo caso, un saldo piuttosto basso.

Il problema non è solo ambientale

Tra le questioni etiche sollevate dall’industria della carne, vi è anche il problema del benessere animale. Il tema spinoso, in questo caso, riguarda le modalità organizzative di questa industria. I livelli di (sovra)produzione sono impressionanti: ogni anno, ormai, vengono prodotte più di 340 milioni di tonnellate di carne e prodotti animali. Quei “prodotti”, però, sono – almeno prima della trasformazione – individui. Come riporta Our World in Data, solo nel 2018 sono stati uccisi:

  • 68,79 miliardi di polli,
  • 1,48 miliardi di maiali,
  • 656,31 milioni di tacchini,
  • 573,81 milioni di pecore,
  • 479,14 milioni di capre,
  • 302,15 milioni di bovini.

Tiriamo le somme: fa 72.281.410.000. Settantaduemiliardiduecentottantunomilioniquattrocentodiecimila animali macellati, in un anno.

Senza contare le condizioni di vita a cui è costretto questo immenso numero di esseri viventi, costretti a vivere in condizioni quanto più possibile lontane da quelle naturali. D’altronde, i ritmi di rigenerazione delle risorse naturali sono lenti, non compatibili con le esigenze di un modello produttivo in costante e rapidissima crescita.

Inoltre, va ricordato che un modello intensivo di produzione – come quello adottato negli allevamenti – costituisce anche un rischio per la salute: non soltanto per le emissioni che i grandi impianti producono (gas climalteranti e altre sostanze inquinanti), ma anche per la diffusione di malattie.

“Big Meat”: parliamone

Eppure, nonostante gli evidenti svantaggi e problemi causati dall’industria zootecnica, poco è stato fatto per regolamentarla e per migliorarla. Ancora oggi, ad esempio, gli Stati sostengono con generosi sussidi questo settore produttivo, incentivando di fatto un sistema insostenibile su più fronti, in quanto altamente inquinante e potenzialmente rischioso per la salute dei cittadini. Secondo un rapporto pubblicato da Greenpeace nel 2019, solo l’Unione Europea destina ogni anno, nell’ambito della PAC (Politica Agricola Comune), 28-32 miliardi di euro a sostegno degli allevamenti.

Un recente rapporto condotto congiuntamente da FAO, UNDP e UNEP stima che su scala globale i sussidi all’agricoltura, molti dei quali sovvenzionano l’industria della carne, abbiano raggiunto tra il 2013 e il 2018 la cifra di circa 540 miliardi di dollari l’anno: di questi, l’87% (pari a 470 miliardi di dollari) ha finanziato attività dannose sul piano sociale e ambientale. È evidente come questo generi una distorsione del mercato, perché i danni all’ambiente e alla salute vengono esternalizzati, cioè diventano “invisibili” e non sono calcolati nel prezzo pagato dal consumatore finale (che però li paga a caro prezzo attraverso le tasse, che si trasformano, appunto, in sussidi). In tal modo, il consumo di prodotti di origine animale viene artificialmente incentivato, e il circolo vizioso si perpetua.

Il punto è che, quando si affronta il tema dell’impatto dell’industria alimentare (e in particolare della produzione di cibo di origine animale), ci si avventura in un territorio impervio. Consumare carne è un fatto culturale, legato a valori e tradizioni spesso profondamente radicate nelle abitudini individuali e collettive. Inoltre, potersi permettere una dieta a base di carne è divenuto sinonimo di ricchezza: non è un caso, infatti, che il consumo di prodotti animali sia aumentato in maniera vertiginosa in Paesi come il Brasile o la Cina, che sono nel pieno di un periodo di sviluppo economico.

Considerata la complessità della questione, la difficoltà per il consumatore finale nel percepire l’impatto del prodotto che decide di acquistare, e l’insieme di significati e valori che si sovrappongono alle dimensioni economica e ambientale, è comprensibile che vi sia resistenza al cambiamento. Dal punto di vista del contributo individuale alla questione, infatti, la soluzione è una soltanto: ridurre drasticamente il consumo di carne e altri prodotti animali, e rendere la propria dieta principalmente vegetale.

I consumatori di carne sono troppo distanti dagli aspetti più brutali del complesso bovino, per vederli e per preoccuparsi degli effetti che le proprie preferenze alimentari hanno sulle vite degli altri e sui rapporti politici fra le nazioni. Jeremy Rifkin, "Ecocidio. Ascesa e caduta della cultura della carne"

Ma, come in ogni ambito dell’intricata questione ambientale, l’azione individuale non può tutto. A fare veramente la differenza saranno – esattamente come nel caso dell’abbattimento delle emissioni climalteranti – le scelte compiute dai governi e dalle grandi aziende (Big Oil e Big Meat in prima linea). Ecco perché è importante che ci attiviamo non solo nella nostra sfera privata, ma anche come cittadini. Un primo passo è essere sempre più consapevoli della storia e dell’impatto dei prodotti che si decide di acquistare: è in questo modo che, in quanto consumatori, possiamo contribuire a orientare il mercato verso scelte più sostenibili. Ancor più importante, poi, è essere cittadini attivi: monitorare le decisioni politiche, far sentire la propria voce, partecipare.

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