SOCIETÀ

La lotta degli U'wa colombiani in difesa del loro territorio

“Zizuma non è acqua solida: è spirito, è entità, è essere. Zizuma per noi è intoccabile, perché non solo ci dà la vita, è vita essa stessa. La relazione che intrecciamo con Madre Terra ci permette di tutelare ciò che c’è di materiale, che voi chiamate ‘risorsa’, ma soprattutto di progredire a livello spirituale”. Sono le parole di Juan Gabriel Jerez Tegría, consulente legale e leader del popolo ancestrale degli U’wa: il popolo delle foreste e del ghiaccio. Si tratta di circa 10.000 persone divise in 22 comunità, che vivono tra i 1.000 e i 2.500 metri di altitudine, nelle regioni di Boyacá, Arauca, Casanare, Santander e Norte de Santander. Il loro territorio attraversa ben quattro ‘piani termici’, dalle vette glaciali del sacro monte Zizuma (El Cocuy in spagnolo) fino alle foreste della Colombia più antica e selvaggia. Un tempo ammontava a un milione e mezzo di ettari, di cui sono ora rimasti circa 300.000 ettari - equivalenti ad appena 3.000 chilometri quadrati - nel Nord-Est della Colombia, a ridosso del Venezuela. 

Gli U’wa abitano e difendono le Ande colombiane da ben prima che noi iniziassimo a scrivere i nostri libri di storia, quando le Americhe non portavano ancora questo nome e la lingua del continente era quella delle comunità delle foreste e delle montagne. Questo popolo lotta da decenni per proteggere i territori sacri dalla minaccia dell’estrattivismo e dello sfruttamento del ghiacciaio e della foresta, che prende la forma delle concessioni di estrazione del petrolio e di progetti di sviluppo turistico. Una lotta non violenta, ma radicale, diventata simbolo del coraggio delle comunità indigene e che non ha mai chinato la testa nonostante la violenza armata, la colonizzazione culturale e l’indifferenza statale. Nel dicembre 2024, grazie a una storica sentenza della Corte Interamericana dei Diritti Umani, anni di resistenza hanno trovato finalmente riconoscimento e giustizia, segnando una pietra miliare nel diritto internazionale. La Corte ha stabilito la responsabilità dello Stato colombiano nei confronti del popolo indigeno U'wa, riconoscendo la violazione sistematica dei diritti territoriali e culturali della nazione U'wa.

“Per quarant’anni ci siamo battuti, con i nostri corpi per fermare fisicamente chi vuole costruire, tagliare, estrarre, consumare; e legalmente, a livello statale e internazionale” racconta Juan Tegría, la voce salda dopo una vita di resistenza. “Sappiamo che questa è una zona strategica e lo sarà sempre di più. C’è petrolio, c’è acqua che nutre i fiumi che scorrono nei dipartimenti circostanti, c’è legname, ora siamo attrattivi pure per l’industria del turismo. Non abbiamo mai distolto lo sguardo. Hanno capito che eravamo disposti a dare la vita per ogni cristallo del nostro ghiacciaio, per ogni goccia d’acqua e foglia di foresta. U’wa è un popolo che accoglie. Tutti sono i benvenuti, ma devono ricordare che sono ospiti, non padroni e rispettare l’identità e la dignità di questi luoghi e di chi li abita. Altrimenti non sono i benvenuti”.

Per la cultura U’wa, il mondo visibile è solo una parte della realtà: i piani spirituali interagiscono con quello fisico e mantenere l’ordine cosmico e l’equilibrio tra i mondi è compito dell’intera comunità, guidata dai saggi, i Werjayas. Madre Terra è stata donata agli esseri umani da Sira, creatore del mondo e chiunque la sfrutti per i propri interessi ne subirà le ireLa loro terra, chiamata Kera Chikara, è inviolabile, e il ghiacciaio sacro, Zizuma, non va sfiorato nemmeno con un dito. È lì, puro, integro, da rispettare nella sua immensità e fragilità. Il petrolio, per gli U’wa, è il sangue della terra. Estrarlo equivale a dissanguare l’universo, provocando catastrofi cosmiche. 

Questa visione ha guidato la loro lotta alla multinazionale petrolifera Occidental Petroleum (Oxy), che negli anni ’90 ottenne dal governo colombiano il permesso di esplorare un’area del Norte de Santander - il Bloque Samoré -, con l’obiettivo di cercare ed estrarre idrocarburi. La concessione segnò l’inizio di una delle più emblematiche battaglie indigene contro le multinazionali del petrolio. Gli U’wa si opposero con tutti i mezzi: azioni legali, appelli internazionali, marce, resistenza pacifica. Le ritorsioni nei confronti degli attivisti indigeni e di chi li supportava furono violente, soprattutto da parte dei gruppi armati illegali: nel 1999 per esempio le ex FARC sequestrarono e assassinarono tre statunitensi difensori dei diritti dei popoli indigeni, che lavoravano a stretto contatto con i leader U’wa. 

Secondo gli U’wa, lo Stato colombiano era spesso connivente e criminalizzò le proteste per interessi economici legati all’industria petrolifera. Non cedettero: la loro determinazione e la risonanza mediatica del caso furono tali che, nel 2002, Oxy si ritirò, lasciando dietro di sé un solco di ferite profonde e la minaccia pendente che un’altra compagnia prendesse il suo posto. Gli U’wa denunciarono la sistematica violazione del diritto alla consultazione previa, libera e informata delle comunità ancestrali, principio sancito dalla Convenzione 169 dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) sui diritti dei popoli indigeni e poi ripreso dalla giurisprudenza interamericana. 

Ci vollero anni però prima che il caso, presentato alla Commissione Interamericana dei Diritti Umani già nel 1997, trovasse una risoluzione definitiva: altri vent’anni di battaglie, sotto la continua minaccia degli affari del petrolio, a cui andò pian piano a sommarsi la sete delle pianure, sempre più interessate alla preziosa riserva d’acqua costituita dal ghiacciaio Zizuma.

“Sembrava che non finisse mai” racconta Juan Tegría, che si è occupato personalmente delle questioni legali “invece abbiamo vinto”. Il 20 dicembre 2024, la Corte Interamericana dei Diritti Umani ha condannato lo Stato colombiano per la violazione dei diritti umani del popolo U’wa, in particolare i diritti al territorio, alla cultura e alla partecipazione. È stata la prima volta che un tribunale internazionale ha riconosciuto formalmente la violazione della spiritualità territoriale di un popolo indigeno come forma di violenza istituzionale. La Corte ha stabilito che le attività estrattive nei territori sacri senza consultazione adeguata sono incompatibili con i diritti fondamentali. Ha ordinato allo Stato di delimitare e titolare definitivamente il territorio U’wa, di garantire il rispetto dei luoghi sacri e di riformare i meccanismi di consultazione. Ma, soprattutto, ha ribadito che la spiritualità indigena non è un folklore da tutelare, bensì un sistema di conoscenza e diritto che ha valore giuridico. 

Javier Villamizar, presidente di Aso, la massima autorità del popolo U’wa, riconosciuta a livello nazionale e internazionale, dichiara a EarthRights International che questo riconoscimento è una “pietra miliare non soltanto per la Nazione U’wa, ma per tutti i Popoli Indigeni della Colombia, i cui diritti sono stati ripetutamente violati nella storia. Celebriamo questa decisione e chiediamo al governo Colombiano di rispettare gli ordini della Corte e proteggere il nostro diritto di vivere con dignità nella nostra terra”. 

“La sentenza della Corte è una vittoria importante” dice Juan Tegría “perché dimostra che la resistenza pacifica funziona e costituisce un precedente per tutti i nostri fratelli e sorelle, ma sappiamo che è solo l’inizio. La fame di risorse aumenta e non possiamo abbassare la guardia”. Sono il rame, i metalli preziosi e il petrolio che preoccupano Juan Tegría: ‘la maledizione dell’oro’, che già in passato ha portato al massacro dei popoli ancestrali e alla distruzione delle loro terre. Oltre al ghiacciaio Zizuma, che sta subendo anche gli effetti della crisi climatica, osservati speciali ora sono i páramos, le aree umide ai suoi piedi, ricchissime di biodiversità e che costituiscono ecosistemi strategici per la regolazione del ciclo idrologico. I páramos di tutto il Paese sono minacciati da attività minerarie e dall'interesse delle multinazionali, nonostante siano essenziali riserve di acqua potabile e fondamentali per le attività economiche di più del 70% della popolazione colombiana.

Fermatevi un attimo ad ascoltare il silenzio. Solo così potrete sentire il battito della vita Juan Tegría, leader del popolo ancestrale degli U’wa

Inoltre, gli U’wa guardano con molto timore anche al turismo in continua crescita, soprattuto nell’area del ghiacciaio Zizuma. L’afflusso di visitatori aumenta di anno in anno e rischia di compromettere i delicati equilibri e la sacralità del territorio, nonostante la Corte Interamericana abbia decretato che il popolo U’wa deve essere coinvolto nell’amministrazione e conservazione delle aree in cui il loro territorio si sovrappone al Parco Nazionale El Cocuy. “È un inizio, ma non basta. Vogliamo che Zizuma venga riconosciuto come territorio intoccabile e inviolato, nel rispetto delle nostre leggi e della sua identità” spiega Juan Tegría. “Temiamo che il turismo diventi un nuovo modo per accaparrarsi la terra e poi, una volta che avranno trasformato le cascate sacre in un lunapark, noi non avremo più voce in capitolo e faranno presto a riprendere con le attività estrattive. Non sarebbe la prima volta: sappiamo bene quanto potenti siano gli artigli del profitto”.

Artigli che scuotono il mondo intero, sommandosi agli effetti della crisi climatica e alla progressiva fusione dei ghiacciai in tutto il pianeta. Il 2025, decretato dalle Nazioni Unite Anno Internazionale della Conservazione dei Ghiacciai, è ulteriore occasione per riconoscere non solo l’urgenza ecologica della loro protezione, ma anche il valore culturale e spirituale che molti popoli ancestrali attribuiscono a queste entità glaciali. La visione degli U’wa, che venerano Zizuma come essere vivente e inviolabile, è un approccio esistenziale che può essere chiave nel ripensare il nostro rapporto con i ghiacci e, più in generale, con il pianeta. I ghiacciai non sono solo riserve d’acqua da sfruttare o meraviglie da fotografare: sono punti sensibili dell’equilibrio climatico e spirituale del mondo. Ascoltare chi li custodisce da secoli può diventare oggi un gesto di giustizia climatica e una bussola per l’intera umanità.

Anche per questo la prossima Conferenza delle Nazioni Unite sulla crisi climatica (COP30), che si terrà nel novembre 2025 a Belém, ai margini dell’Amazzonia brasiliana, mira a portare le istanze dei popoli ancestrali - e il loro modello esistenziale - al centro del dibattito globale. Le comunità indigene infatti sono sempre più colpite dalle logiche della predazione Occidentale e da un colonialismo culturale spietato, che ne minaccia la disintegrazione fisica e culturale, tra perdita di territorio, mancanza di riconoscimento legale, violazione dei diritti e discriminazione. Per far fronte a queste dinamiche è necessario non solo riconoscere la loro cultura e le loro terre, ma anche il loro ruolo fondamentale  - e profondamente politico - di custodi storiche del pianeta e di portavoce di un modello sociale e culturale basato sulla relazione e sul rispetto fra le persone e con la natura. Tuttavia, ci sono preoccupazioni riguardo alla reale inclusione dei popoli della foresta nei processi decisionali: i leader indigeni auspicano che vi sia un abbattimento delle barriere linguistiche e logistiche che limitano la loro partecipazione effettiva e sottolineano l’importanza di un approccio decoloniale che riconosca e valorizzi le conoscenze ancestrali nella lotta contro la crisi climatica; chiedono inoltre la garanzia che le loro voci siano ascoltate come parte politica riconosciuta della scacchiera geopolitica globale.   

Juan Tegrìa guarda al futuro con preoccupazione, ma con la determinazione di sempre: “Noi, dalla nostra umile posizione di popolo ancestrale, da questo piccolo angolo di pianeta in cui respiriamo, chiediamo che la comunità internazionale possa ascoltare, guardarsi dentro in questa economia vorace e sostituire gli appetiti insaziabili che stanno divorando terra e umanità con un equilibrio. Fermatevi un attimo ad ascoltare il silenzio. Solo così potrete sentire il battito della vita”.


Tutte le foto di questo articolo e i contatti con i leader U'wa sono state fornite a Il Bo Live da Yaku, un’associazione italo-colombiana impegnata nella difesa dei diritti umani, dei beni comuni e dei territori indigeni. 

Yaku lavora in Colombia da anni a fianco delle popolazioni native, tra cui il popolo U’wa, sostenendone la lotta contro l’estrazione petrolifera e la militarizzazione delle aree sacre. Yaku promuove processi di autodeterminazione, giustizia ambientale e recupero della memoria collettiva, intrecciando saperi ancestrali e strumenti legali internazionali. Con gli U’wa ha contribuito a portare all’attenzione mondiale le violazioni subite, fino al recente riconoscimento presso la Corte Interamericana dei Diritti Umani.

Per approfondimenti, consultare il sito dell'associazione https://www.yaku.eu/

 

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