SOCIETÀ

Siria, l’ambiente come vittima e strumento di guerra

“Il popolo siriano continua a soffrire l’assenza dei propri diritti dopo anni di repressione e isolamento forzato dal mondo. La comunità internazionale ha il potere di contribuire alla giustizia.”
— Shilan Sheikh Musa, giornalista curdo-siriana da Qamishlo

Figure chinate sulla sabbia, a difendere ciò che resta di una terra ormai deserto. Il fuoco brucia, carico dell’odio - volti nascosti che seminano rabbia, trasformando il granaio di Siria in un oceano di cenere. Prima della guerra civile, nel Nord-est si producevano cereali per l’intero Paese; in poco più di dieci anni la produzione è dimezzata, andando a concorrere in maniera sostanziale alla grave crisi umanitaria che secondo le Nazioni Unite sta ormai colpendo più del 75% della popolazione. Il nord-est della Siria, massacrato da 14 anni di guerra, è anche uno dei territori più colpiti dalla crisi climatica e sta affrontando disastri ambientali sempre più frequenti e intensi, tra cui ondate di calore, incendi boschivi, siccità prolungate e tempeste di sabbia. La combinazione di strategie belliche che prendono di mira le infrastrutture idriche e le risorse ambientali e alimentari come arma di conflitto, l’esacerbarsi degli eventi estremi e pratiche agricole e industriali insostenibili hanno devastato il Paese, facendone un esempio emblematico di come l’ambiente possa diventare sia vittima che strumento di guerra. 

Chi paga il prezzo maggiore

A pagare il prezzo maggiore, come spesso accade, sono le fasce vulnerabili della popolazione. Mentre sempre più persone cadono in povertà estrema e l’ecocidio, pur non essendo ancora formalmente riconosciuto come crimine perseguibile dalla Corte Penale Internazionale, diventa un devastante dato di realtà, la Siria resta prigioniera di un sistema politico e militare che nega giustizia e diritti a milioni di cittadine e cittadini. Il futuro? Un’ombra che pende come una spada di Damocle su una terra piegata e senza energie per reagire a ulteriori repressioni. Eppure, proprio nella violenza è cresciuta la consapevolezza del rapporto che c’è tra questioni sociali e questioni ambientali e la voce delle donne ha iniziato a levarsi con forza per difendere i propri diritti e quelli della Terra. “Le donne hanno avuto un ruolo centrale nella rivoluzione siriana fin dal suo inizio, partecipando alle manifestazioni, documentando le violazioni e offrendo aiuti umanitari e sanitari”, racconta Shilan Sheikh Musa, giornalista curda di Qamishlo, che da anni documenta le trasformazioni sociali e ambientali della regione scrivendo per numerose testate nazionali e internazionali. “Le donne siriane, così come le fasce deboli e le minoranze, hanno subito gravi pressioni e sofferenze, affrontando detenzioni arbitrarie, violazioni dei diritti su larga scala, violenze sessuali e diverse forme di ricatto. Ma nonostante i tentativi di silenziarle, continuano la loro lotta per la giustizia e la libertà, sia dentro che fuori dal Paese. Rivendicano uguaglianza, giustizia legale, empowerment politico ed economico e una presenza concreta nei processi decisionali”.

Una resistenza silenziosa

Custodi della Terra, protagoniste di una resistenza silenziosa che rappresenta un modo diverso di stare al mondo, le donne curde in Siria sono state protagoniste della resistenza politica contro l’autoritarismo e la repressione, diventando simbolo di coraggio e determinazione. Oltre all’impegno militare, hanno promosso un modello di società basato su parità di genere, ecologia sociale e democrazia diretta, come nel progetto del Confederalismo Democratico in Rojava, proprio nel Nord-est della Siria, dove l’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord e dell’Est (DAANES) si ispira al pensiero di Abdullah Öcalan, fondatore e leader storico del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e imprigionato da più di 25 anni nell’isola-carcere di Imrali, nel Mar di Marmara. In un’area segnata da guerre, patriarcato e repressioni, le donne curde hanno ridefinito radicalmente il ruolo femminile nei processi di liberazione, dando vita a una delle esperienze più significative di femminismo militante e rivoluzionario del nuovo millennio.

Ciononostante, Sheikh Musa guarda all’attualità con disincantato scetticismo: “Non sono ottimista, la Siria non sta vivendo una fase di transizione basata sulla giustizia. Le restrizioni alla partecipazione politica persistono e non c’è un reale passaggio a un governo inclusivo. Finché le istituzioni non agiranno in maniera trasparente, garantendo la presenza attiva di tutte le componenti del popolo siriano al processo politico, comprese minoranze, donne e giovani; finché non ci sarà il pieno rispetto dello stato di diritto, non ci potrà essere una fine delle violenze e un fiorire della democrazia”. Nonostante la gioia per la caduta del regime, è ormai evidente che la Siria stia continuando a pagare il prezzo di anni di malgoverno: “Il mio Paese è stato vittima di logiche clientelari, familiari e settarie, di una classe politica basata sulla corruzione e sul nepotismo: tutto ciò ha fatto sì che ricchezza e potere restassero nelle mani di un’élite fossilizzata sui propri privilegi. La distribuzione delle risorse era fortemente iniqua, la mia terra devastata dai conflitti armati e dalla repressione violenta di qualsiasi movimento civile pacifico che chiedesse riforme, o il semplice miglioramento delle condizioni sociali, politiche ed economiche. Prima dello scoppio della rivoluzione del 2011, la Siria era governata da un regime monopartitico che si reggeva su un controllo autoritario e brutale da parte degli apparati di sicurezza. Il partito Baath, guidato dalla famiglia Assad, dominava la vita politica ed economica, annientando ogni forma di opposizione. A partire dal 2011, la repressione delle proteste popolari ha innescato una lunga e sanguinosa guerra civile, che ha coinvolto una molteplicità di attori interni e potenze straniere, causando centinaia di migliaia di morti, milioni di sfollati e la frammentazione del territorio siriano. Nonostante il sostegno di Russia e Iran, il regime è infine crollato nel 2024, quando Bashar al-Assad è fuggito all’estero. Il nuovo potere però, sotto la guida di Ahmad al-Sharaa, non solo risente delle conseguenze di queste dinamiche, ma continua ad alimentarle, aggravandone gli effetti. Io non vedo un reale cambio di rotta” - conclude Sheikh Musa.

I danni ambientali di un conflitto

Non c’è inoltre un vero piano di azione per affrontare i danni ambientali causati da decenni di conflitto. La distruzione di infrastrutture industriali e petrolifere ha rilasciato sostanze tossiche che permangono nell'aria, nel suolo e nelle acque. L’uso di armi contenenti metalli pesanti ha contaminato vaste aree, mentre la gestione dei rifiuti è collassata, portando a discariche incontrollate e incendi di rifiuti pericolosi. La deforestazione è aumentata a causa della necessità di legna da ardere, soprattutto nelle regioni costiere dove si è concentrata la popolazione sfollata. Questo ha accelerato l’erosione del suolo e la desertificazione, minacciando la biodiversità e la capacità agricola del paese. A poco sono valse le linee d’azione definite dal Ministero degli Affari Ambientali siriano, che fin dal 1991 ha cercato di affrontare i problemi ambientali attraverso piani quinquennali e la partecipazione a convenzioni internazionali. L’instabilità politica ed economica e la mancanza di risorse hanno minato l’efficacia di qualsiasi iniziativa concreta. Anche l’adesione a trattati come la Convenzione di Stoccolma sugli inquinanti organici persistenti e la Convenzione di Basilea sui rifiuti pericolosi non sono mai uscite dai confini cartacei delle dichiarazioni di intenti.
Nei fatti, le infrastrutture idriche sono al collasso e il deserto avanza, aiutato da lunghi periodi di siccità - come quella che tra il 2006 e il 2011 ha costretto circa 1,5 milioni di agricoltori a lasciare le loro terre, o la più recente iniziata nel 2020 e che ha coinvolto Siria, Iraq e Iran - e dagli incendi dolosi usati come strategia bellica. Il Centro d’informazione del Rojava riporta che nel 2024 c’è stato un aumento drastico dei danni causati dagli incendi alle colture, con migliaia di ettari di territorio bruciati volontariamente dalle forze armate turche e siriane o da gruppi militari non sempre identificati. Le cifre aumentano nei territori occupati da milizie islamiste che fanno capo alla Turchia, come nell’area montuosa di Afrin: secondo l’Organizzazione per i diritti umani di Afrin (HROA), più del 65% delle aree verdi della zona è stato distrutto durante l’occupazione. Nella regione amministrata dalla DAANES invece, la Turchia è accusata di utilizzare l'acqua come arma, riducendo intenzionalmente il flusso dei fiumi verso la Siria. Questa tattica, aggiungendosi alle siccità, ha causato una crisi idrica disastrosa. Si tratta di attacchi che non solo compromettono la sicurezza alimentare, ma mirano anche a cancellare l’identità culturale della popolazione curda.

In questo contesto, la DAANES nell’aprile 2024 ha organizzato la prima Conferenza Generale sull’Ecologia a Qamishlo, riunendo circa 120 delegati locali e internazionali per affrontare le sfide ambientali della regione. La conferenza ha discusso soluzioni per una transizione ecologica equa, giusta e di sostanza, basata su una lotta alla crisi ambientale che vada in parallelo alla lotta contro il capitalismo e il colonialismo. La chiave di interpretazione è quella della giustizia climatica e dell’intreccio inscindibile tra diritti umani e ambiente: per affrontare i problemi che affliggono il Paese c’è bisogno di una governance che affronti le molteplici crisi in maniera integrata e sinergica. Nonostante gli stravolgimenti politici che stanno scuotendo la Siria e i continui attacchi da parte di gruppi tribali e di milizie sostenute dalla Turchia, l’Amministrazione Autonoma Democratica della Siria del Nord-Est è più attiva che mai e continua a operare nei territori del Rojava. La DAANES propone una soluzione eco-socialista alle sfide poste da conflitti armati, pressioni geopolitiche e crisi ambientali, mantenendo il suo impegno nella costruzione di un modello politico basato su democrazia diretta, ecologia sociale e parità di genere. Nel marzo 2025 è stato raggiunto un accordo tra il presidente ad interim Ahmed al-Sharaa e le Forze Democratiche Siriane - il braccio armato della DAANES, che accettano di venire integrate nelle strutture del nuovo esercito nazionale siriano. Questo processo mira a unificare le forze armate sotto l’egida del governo di transizione, promettendo di garantire i diritti costituzionali dei curdi e di integrare le istituzioni civili e militari del Nord-est siriano nel governo centrale. Nei fatti permangono però le tensioni e sono in molti a palesare dubbi sull’effettivo rispetto dei diritti civili. 

Sheikh Musa osserva l’evolversi della situazione politica del suo Paese con una consapevolezza che non vuole abbandonare la speranza, ma che non si lascia accecare dalle promesse “il futuro della Siria dipenderà da quali scelte verranno prese nel percorso politico di questo governo transizionale. Se il nuovo potere realizzerà una vera riconciliazione nazionale, abbandonerà i modelli di governo settari e coercitivi escludendo le politiche miliziane e portando avanti una transizione democratica stabile basata sul pluralismo, sull’accettazione del diverso, sulla partecipazione condivisa e sulla garanzia dei diritti di tutti i cittadini, allora la Siria potrà dirigersi verso uno Stato democratico, con istituzioni forti e una società prospera. Se invece la situazione continuerà così — e i segnali attuali purtroppo pendono in questa direzione — e se le nuove autorità continueranno a minimizzare, nascondere o giustificare le violazioni dei diritti umani, etichettandole come episodi isolati o meno gravi di quanto i fatti dimostrino, il risultato sarà un ulteriore aggravamento dell’instabilità, con nuove ondate di violenza e conflitti interni, sia su base confessionale che tra fazioni diverse. Questo condurrà a una prosecuzione della sofferenza umana e al blocco dei processi di ricostruzione”.

Una ricostruzione a rilento

Una ricostruzione che intanto procede lentamente e in modo diseguale. Le stime ambientali indicano che la sola ricostruzione delle infrastrutture distrutte potrebbe generare oltre 22 milioni di tonnellate di CO₂. Un carico ecologico immenso, in un contesto già devastato. I milioni di rifugiati che dopo anni possono tornare a casa trovano solo macerie, mentre aumentano a dismisura coloro che, senza più acqua né cibo, si uniscono all’ondata di nuovi perseguitati costretti a fuggire e a bussare alle porte di un’Europa sempre più blindata. È ormai impossibile raccontare la Siria con una sola lente. La crisi climatica, le guerre, le discriminazioni, la repressione politica: tutto si tiene. Affrontare le sfide ambientali in Siria richiede un impegno globale per riconoscere e condannare l’ecocidio, oltre a sostenere le comunità locali nella ricostruzione giusta e sostenibile. Le parole di Sheikh Musa evidenziano la necessità di una risposta che non trascuri nessun aspetto della crisi siriana e non lasci nessuno indietro. Le ultime frasi sono per il nostro continente: “all’Europa voglio dire che il popolo siriano, sia all’interno del Paese che nella diaspora, dopo anni di repressione e isolamento forzato dal mondo continua a vedere i propri diritti violati. La comunità internazionale ha il potere di contribuire al raggiungimento della giustizia, a partire dalla garanzia che nessuno dei responsabili di gravi violazioni e crimini di guerra rimanga impunito. La crisi siriana non deve essere considerata solo come una questione di rifugiati, ma come una crisi politica complessa che richiede soluzioni durature”. 

Shilan Sheikh Musa è una giornalista curda di Qamishli, Siria, che dal 2013 lavora con numerose testate locali e internazionali, come il Center for Thought and Studies Al-Mesbar, il sito di informazione Emirato-Egiziano Hafriyat, il giornale londinese Al-Hayat e altri canali initernazionali. È impegnata nel campo delle scienze sociali da più di sei anni, collabora con organizzazioni locali e internazionali come Care, e lavora per il sito siriano Al-Hal Net.

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