SOCIETÀ
Transizione ecologica: buone notizie dall'UE ma serve una spinta ulteriore

È ormai dietro l’angolo la prima importante tappa della transizione ecologica nel Vecchio Continente. Tra meno di 5 anni l’Europa dovrà dimostrare di aver tenuto fede all’impegno di dimezzare le proprie emissioni di gas serra: per la precisione, il pacchetto normativo Fit for 55 del Green Deal indica di ridurle del 55% rispetto ai valori del 1990.
Il 28 maggio scorso Teresa Ribera, Wopke Hoekstra e Dan Jørgensen, rispettivamente commissari per la transizione ecologica, per il clima e per l’energia, hanno presentato l’analisi della somma dei piani nazionali per l’energia e il clima dei Paesi membri e hanno concluso che, se quanto messo nero su bianco verrà anche concretizzato nelle città, nelle campagne e nel sistema produttivo, l’Unione riuscirà a fine decennio a ridurre le proprie emissioni del 54%, solo un punto meno di quanto si è prefissata di fare.
Il dato complessivo è positivo ed è una conferma del fatto che nonostante dalle urne elettorali l’anno scorso sia arrivata la richiesta di ammorbidire una transizione ecologica ritenuta troppo pressante da alcuni comparti industriali, come quello automobilistico, e da alcune parti della società civile, come gli agricoltori, la decarbonizzazione resta, anche in questo secondo mandato von der Leyen, la cornice entro cui l’Europa intende rilanciare la propria competitività economica e affrancarsi dalle dipendenze straniere. E questa è la buona notizia.
È anche importante ricordare che l’Europa ha già dato prova che la riduzione delle emissioni e della domanda energetica sono compatibili con la crescita economica: dal 1990 i gas serra sono calati del 37% e il Pil è salito del 68%. Nell’ultimo decennio, dal 2014 al 2023, i consumi finali di energia sono calati del 2% mentre nello stesso periodo il Pil è aumentato del 38%.
L’obiettivo al 2030 è di rendere rinnovabile almeno il 42,5% (possibilmente il 45%) dell’energia europea e di ridurre dell’11,7% i consumi energetici, grazie all’efficientamento. È proprio andando a vedere più nel dettaglio le previsioni sul raggiungimento di questi e altri sotto-obiettivi che si capisce però che c’è ancora molto lavoro da fare e che senza un impegno costante la transizione non si farà da sola.
Rinnovabili ed efficienza
L’analisi della Commissione indica che a fine decennio l’Europa arriverà a sfruttare al massimo il 41% delle propria energia da fonti rinnovabili, lasciando un gap di 1,5% da colmare. In realtà questo avverrebbe solo se tutti gli impegni scritti nei piani nazionali verranno rispettati. L’Italia ad esempio punta a installare, dal 2021 al 2030, circa 70 GW aggiuntivi, principalmente da solare e secondariamente da eolico. Ciò significa tenere una media di almeno 7 GW all’anno: questo è avvenuto nel 2024, ma non nei tre anni precedenti, il che implica la necessità di un maggiore sforzo nei prossimi anni: circa 10 GW all’anno.
Nel caso delle rinnovabili la Commissione è fiduciosa che le cose possano procedere al meglio, ma parla invece di obiettivo che certamente verrà mancato per quanto riguarda la riduzione dei consumi finali di energia. In questo caso il gap europeo al 2030 sarà equiparabile ai consumi annuali del Belgio: si puntava ad arrivare a consumare 763 Mtoe (milioni di tonnellate equivalenti di petrolio), ci si fermerà a 794 Mtoe: circa 30 Mtoe in più dell’obiettivo.
“La piena decarbonizzazione degli edifici entro il 2050 richiede di triplicare l’attuale velocità di riqualificazione energetica” si legge nella comunicazione della Commissione. “Molti Stati membri non forniscono informazioni per l’implementazione del principio ‘prima l’efficienza energetica’, né quantificano l’energia che si aspettano di risparmiare dalle misure di efficientamento delineate nei loro piani”.
Assorbimenti di CO2
Anche l’obiettivo di assorbimento di anidride carbonica da parte dei suoli europei non verrà raggiunto, secondo l’analisi dei piani nazionali. La quota era stata fissata a 310 MtCO2 eq (milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalente), ma verrà mancato per un valore compreso tra le 45 e le 60 MtCO2 eq.
L’esempio da seguire per rimettersi in carreggiata è quello della Danimarca, che un anno fa ha introdotto una riforma che prezza le emissioni prodotte dagli allevamenti di bovini, suini e ovini, e utilizza i guadagni generati per finanziare la transizione nel settore agricolo. Per ogni tonnellata di CO2 emessa oltre il target di riduzione del settore, i produttori pagheranno circa 40 euro a partire dal 2030, 100 euro a partire dal 2035.
Allo stesso tempo però un’altra riforma stabilisce che gli agricoltori danesi verranno pagati circa 100 euro per ogni tonnellata non emessa di azoto, solitamente impiegato nei fertilizzanti e fonte di inquinamento del suolo e dell’acqua.
Anche l’Europa sta lavorando a uno schema di certificazione delle rimozioni di carbonio dall’atmosfera che mira a incentivare i comportamenti virtuosi sotto il profilo ambientale. Le nuove regole dovrebbero valere sia per gli assorbimenti naturali sia per quelli artificiali: la somma dei piani nazionali punta infatti a un assorbimento di oltre 40 MtCO2 eq (il target è 50) entro fine decennio, tramite tecnologie di CCUS (Carbon Capture Usage and Storage).
In Italia ad esempio, Eni e Snam stanno costruendo a largo di Ravenna un impianto di stoccaggio dell’anidride carbonica che verrebbe iniettata in un giacimento sottomarino esausto di gas naturale. Ad oggi però non vi sono evidenze certe sul fatto gli impianti di CCUS siano davvero sostenibili (consumano energia e producono emissioni per funzionare) e che la CO2 possa davvero venire immagazzinata in modo permanente.
Adattamento
“Sul fronte dell’adattamento gli Stati membri hanno accolto le raccomandazioni della Commissione solo parzialmente” si legge nella comunicazione. “Questo è motivo di preoccupazione, dati i risultati di marzo 2024 del rapporto dell’agenzia europea per l’ambiente, lo European Climate Risk Assessment, che ha trovato che l’Unione Europea e gli Stati membri non stanno tenendo il passo dell’accelerazione dei rischi climatici”.
Solo una manciata di Paesi infatti ha incorporato le politiche di adattamento nei propri piani nazionali. Spesso invece mancano misure quantitative su rischi e vulnerabilità climatiche, la più evidente delle quali è l’interruzione delle forniture di acqua, che impatta non solo sull’agricoltura e la sicurezza alimentare ma anche sul settore energetico, sulla generazione idroelettrica, sulla produzione di idrogeno verde e sulla capacità di raffreddamento delle centrali nucleari.
Una strada ancora lunga
Per tagliare di oltre la metà le emissioni europee a fine decennio oltre alla piena realizzazione dei piani nazionali (mancano all’appello ancora quelli di Belgio, Estonia e Polonia) continueranno a giocare un ruolo imprescindibile le politiche europee e in particolare l’Emission Trading System (ETS), che regola la decarbonizzazione delle industrie pesanti, e gli standard di riduzione della CO2 del settore automotive, che però finora si è dimostrato reticente nell’accettazione delle misure.
Il prossimo passo sarà definire gli obiettivi della tappa successiva, quella al 2040, che Teresa Ribera vorrebbe vincolare a una riduzione del 90% delle emissioni. La decisione sarebbe dovuta già arrivare, ma è stata rimandata almeno a questo giugno, perché diversi Paesi, tra cui l’Italia, stanno spingendo per abbassare l’asticella.
“Definire un obiettivo chiaro per il 2030 renderà predicibili le azioni post-2030, rafforzerà la fiducia degli investitori, il che supporterà ulteriormente il raggiungimento dei nostri obiettivi” ha detto Wopke Hoekstra.
Il calo di emissioni della Cina
Chi invece sembra avere le idee chiare sulla direzione verso cui proseguire è Pechino. La nuova capacità di generazione di energia elettrica da fonti rinnovabili installata nel 2024 ha superato i 370 GW (l’Italia ne ha installati 7,5 nello stesso anno): la maggior parte è solare (quasi 280 GW), seguita da eolico (80 GW), idroelettrico (quasi 15 GW) e biomasse (quasi 2 GW).
La crescita delle rinnovabili, con un contributo anche del nucleare, è stata tale da superare tutta la nuova crescita di domanda energetica del Paese, che anzi ha potuto fare meno affidamento alle centrali alimentate a carbone, di cui la Cina resta comunque il primo consumatore mondiale e che la rende il Paese più emissivo al mondo.
Ciononostante, il risultato è che da marzo 2024 a marzo 2025 le emissioni di gas serra della Cina sono calate, di poco più dell’1%.
È presto per dire se il picco sia stato definitivamente superato. Pechino ha dichiarato di voler iniziare la discesa della sua traiettoria emissiva entro il 2030 e raggiungere la neutralità climatica entro il 2060. Si era anche data l’obiettivo di arrivare a 1200 GW di solare installati entro la fine di questo decennio, ma ci è arrivata con 6 anni di anticipo, già l’anno scorso.
Non sapendo come evolverà la guerra commerciale con gli Stati Uniti è difficile fare previsioni sull’andamento dell’economia cinese. Quel che è certo è che alla prossima Cop sul clima, di cui si svolgono questo giugno a Bonn i negoziati intermedi, in vista dell’appuntamento di novembre a Belem, in Brasile, sia la Cina sia l’Europa, proprio per l’assenza degli Stati Uniti, hanno l’opportunità di dare alla diplomazia climatica quella svolta di cui avrebbe bisogno e che la sbloccherebbe da uno stallo che ormai perdura da diversi anni.