SOCIETÀ

Catalogna, una lunga storia di cinismo politico

La fuga del presidente del governo catalano Carles Puigdemont in Belgio, l’arresto di otto ministri del suo governo, il mandato di arresto internazionale per Puigdemont stesso e i suoi fedelissimi all’estero, il commissariamento della regione da parte di Madrid fanno pensare che, nell’immediato, il tentativo di secessione catalano sia finito nel nulla. Tuttavia, è prevedibile che ci sia una cronicizzazione del conflitto, se non altro perché la sua perpetuazione paga dividendi politici non indifferenti ai decisori di ambedue gli schieramenti, nazionalista e indipendentista.

Il fattore chiave è proprio la polarizzazione del campo politico spagnolo in uno schema binario, nel quale le posizioni complesse vengono facilmente relegate all’invisibilità o squalificate. Questa dinamica rischia di proiettarsi dall’alto su una società civile la cui maggioranza sembrerebbe in realtà prediligere una soluzione negoziale: tuttavia, fintanto che questa maggioranza potenziale non riesce ad avviare un’azione politica reale, il conflitto si rinfocola, esacerbando sia i sentimenti sia gli atteggiamenti delle diverse collettività. Il protagonismo spetta a chi ha il potere di tracciare il fronte di battaglia, dall’una come dall’altra parte: chi non è pronto a definirsi in funzione del conflitto si vedrà costretto in un ruolo gregario.

Non si tratta di un vantaggio da poco su uno scacchiere come quello spagnolo recente: nonostante un sistema elettorale che privilegia la governabilità, l’equilibrio fra le quattro forze principali sancito dalle urne a fine 2015 fu tale da costringere a nuove elezioni nel giro di sei mesi. E da giugno 2016 il PP di Rajoy governa con meno di otto milioni di voti, mentre i due principali blocchi di opposizione (PSOE e IU-Podemos), entrambi di orientamento di sinistra, si situano fra i cinque e i sei milioni ciascuno: l’evoluzione in senso indipendentista della situazione catalana aveva già significato, in questi ultimi anni, un rapido tracollo dell’un tempo solido feudo regionale socialista. Inoltre l’esplosione a catena degli ultimi due mesi ha prodotto una raggiera di spaccature in Podemos, l’ultima delle quali culminata nell’espulsione dei vertici locali: una ferita profonda aggravata dal significato che ricopre, per Podemos, partecipare nel laboratorio metropolitano di Barcellona sotto l’egida del sindaco Ada Colau, a sua volta bersagliata da tutti i lati con l’accusa di “ambiguità”.

Proprio quando le primarie hanno riportato, a sorpresa, le redini del PSOE in mano a Pedro Sánchez, più aperturista che mai verso Podemos dopo che il suo primo abbozzo di alleanza a sinistra era stato stroncato da una sorta di “golpe interno”, ecco che Rajoy ha, d’un colpo, l’occasione per sedersi al tavolo con Sánchez chiedendogli appoggio pressoché incondizionato (per gli esiti, si veda questa prima pagina del quotidiano di destra ABC, qui riportata da El Periódico) nonché l’opportunità di tacciare come gravemente irresponsabili le mozioni di sfiducia ventilate da Podemos.

A questo proposito non è superfluo ricordare che la mozione di censura del giugno scorso adduceva i gravissimi casi di corruzione che stanno investendo, ondata dopo ondata, tutto il PP: la Spagna è (o era?) sull’orlo di una Tangentopoli la cui portata prometterebbe di essere finanche maggiore che non l’italiana, con tanto di “suicidi” più o meno virgolettabili ma sempre e comunque strategici. Tutto è finito sotto il tappeto a strisce gialle e rosse della crisi catalana.

Ma la rendita politica del PP non è solo indiretta: dopo decenni di marginalità, assistiamo a una resurrezione in grande stile dell’ultradestra di ispirazione neofascista, una delle piaghe che la Spagna si era risparmiata – a parte fenomeni marginali – anche come naturale contropartita dell’effettiva continuità politica, economica e istituzionale goduta da gran parte del franchismo. Diversi analisti politici hanno constatato che a destra del PP non esiste spazio elettorale per nessun partito (qui un esempio su El País, che illustra tra l’altro come una minoranza di destra governi su un Paese la cui società è nettamente orientata a sinistra). Ne consegue che se il PP desidera aumentare la propria massa di votanti, che è stata fra 2015 e 2016 ai minimi storici degli ultimi trent’anni, ci sono a disposizione solo due strategie: muoversi verso il disputatissimo spazio del centro – oppure spostare la società civile verso destra. Rajoy, maestro dell’immobilità, non può che propendere verso questa seconda opzione; e a quanto pare ci sta riuscendo benissimo.

Madrid tira dunque la corda perché ricava un enorme vantaggio politico dalla tensione imperante: il processo di indipendenza è stato finora così fragile (e a tratti apertamente farsesco) per quanto concerne legittimità, coerenza, inclusività o garanzie democratiche che diventa facile per la stragrande maggioranza degli spagnoli convergere su posizioni di ostilità nei confronti dell’indipendentismo. Naturalmente le sinistre, che come detto sono prevalenti nella società civile del Paese, detestano la repressione poliziesca, ma allo stesso tempo si trovano “obbligate” ad aderire, e nemmeno di malavoglia, ai valori legali e costituzionali. Gli apolitici, e non parliamo nemmeno dei destrorsi, vedono con favore ed eccitazione l’applicazione della mano dura in una contesa che, come molta parte della politica contemporanea, trae ispirazione nei toni e nei modi dai derby calcistici.

In Catalogna la situazione è stata gestita dall’indipendentismo di centrodestra con il fine primario di evitare un appuntamento elettorale che decreti la fine irrimediabile del nazionalismo (catalano) cattolico liberista, una fine che potrebbe avvenire già alle elezioni fissate dal governo per fine dicembre. L’ultimo settennio è stato di crisi crescente, dapprima sotto il peso dei disastri prodotti da privatizzazioni e tagli, poi con il colpo durissimo del verminaio di corruzione scoperto attorno al “padre della patria” Pujol e alla sua famiglia. Con un balletto di elezioni prima anticipate poi trasformate in plebiscito sull’indipendenza, attraverso una raffica di cambi di sigle e alleanze, i leader di destra si sono sempre assicurati la presidenza in nome del procés independentista català.

Tuttavia tale forma di indipendentismo opportunista, prevalente in termini di cariche politiche, non vede di buon occhio l’instabilità economica imminente e il rifiuto da parte dell’Europa. Avrebbero dunque fatto volentieri marcia indietro, tanto più che non pochi dirigenti erano tutt’altro che indipendentisti anche solo dieci anni fa: il partito in passato ha spesso offerto un sostegno decisivo ai governi del PP in nome della comune ideologia. Il guaio, per loro, è stato che il fervore popolare caricato come una molla non è facile da smontare, a maggior ragione perché invece l’indipendentismo più radicale delle CUP ha spinto per un giro di vite. Quel che più conta, però, è che lo Stato centrale è stato compattissimo nel proporre come prima e inevitabile mossa un nuovo appuntamento elettorale: sarebbe stata una strage per la destra catalana se Puigdemont vi si fosse recato con il marchio d’infamia e di ridicolo (non si sa quale sia peggiore) dell’indipendenza balbettata all’indomani del referendum solo per sospenderla istantaneamente al termine del minuto di applausi. Ecco allora la nuova, recentissima piroetta.

In realtà il paradosso del microcosmo catalano è che mentre il cinismo domina fra i gestori politici di ogni schieramento, l’ingenuità è invece dilagante in una popolazione che, fra gli indipendentisti, vive il proprio sogno, autodefinito come tale, con un tale trasporto da lasciare da parte ogni confronto con il reale.

Chi apparentemente ha le idee più chiare è la CUP, la Candidatura di Unità Popolare. La scommessa di questo partito è in direzione di un’indipendenza rivoluzionaria, di uno strappo che faccia uscire la Catalogna con un solo balzo dall’Europa e dall’euro, dalla NATO, dal dominio delle banche e delle grandi imprese. Un’uscita dal mondo capitalista in grande stile. Ovviamente non sarebbe una festa di gala. È prevedibile una transizione lunga e dura dal punto di vista materiale: ma per un partito ideologicamente legato all’idea di decrescita non si tratta di un problema, anzi. Un nuovo mondo comunitario, agricolo, autarchico, di sussistenza e magari ecoturismo, con una prospettiva simile a quella di altri Stati ai margini del capitalismo globale ma col vantaggio di non dover iniziare da una situazione di sfruttamento coloniale: al contrario si partirebbe sulla base di strutture produttive solide e di una formazione capillare della popolazione, eredità del mondo sociale preesistente. C’è da capire se, in questo idillio, la provenienza da un mondo di capitali accumulati e consumi consolidati sarà favorevole o meno: le privazioni materiali si sopportano più di buon grado quando ci si lascia alle spalle una vera e propria schiavitù, ma non è questo il caso di una delle regioni più ricche d’Europa nonché già dotata di un’autonomia fra le maggiori al mondo.

Sarebbe una rivoluzione ma, se messi in condizione di vedere questo futuro possibile, gran parte dei due milioni di indipendentisti attuali, che appartengono soprattutto alla borghesia media o medio-alta, scenderebbero immediatamente dal treno. Perfino in termini di rappresentanza elettorale la CUP, nonostante abbia raccolto un successo storico grazie al voto di protesta, circa il 10% regionale (poco più di 300.000 voti, comunque un risultato notevolissimo).

Probabilmente per la CUP il punto di non ritorno verso un machiavellismo più o meno maturo fu il rimangiarsi la decisione di contare i votanti – cioè le persone, “le teste” – nelle famose elezioni plesbiscitarie del 2015. I partiti propensi all’indipendenza raccolsero in effetti meno voti non solo rispetto a un ipotetico 50% degli aventi diritto, ma perfino rispetto alla metà dei votanti effettivi. Tuttavia questi partiti hanno più seggi nel Parlament perché il sistema elettorale compensa con un premio territoriale le spopolate “comarche” rurali: borghi di provincia dove l’indipendentismo ribolle fra obiezione fiscale e un senso di appartenenza familistica, quasi razziale. È questo tipo di abuso del meccanismo rappresentativo che la CUP avevano annunciato di voler rifiutare in nome della “democrazia diretta”: invece ci fu l’inversione di rotta.

Un conflitto al calor bianco è esattamente dove gli indipendentisti vogliono essere: non è stato ancora chiarito se si presenteranno alle elezioni regionali imposte da Madrid per il 21 dicembre. A un iniziale diniego in nome dell’indipendenza “ormai dichiarata” sembra ora seguire la voglia di continuare a ballare: “è una corsa di fondo” è stato detto il primo novembre. Guai se la “base popolare”, di fronte al fuggi fuggi delle banche e delle imprese, capisse l’andazzo e si raffreddasse nel giro di pochi mesi o settimane, come già avvenuto più volte negli ultimi due o tre anni, prima che la manfrina del referendum riaccendesse gli animi.

Il centrodestra di Puigdemont (fuggito in Belgio) è imbarazzante: il “ministro” dimessosi su due piedi, per protesta, prima della presunta dichiarazione d’indipendenza del Parlament dovrebbe essere il candidato alla presidenza per le elezioni del 21 dicembre. Come detto sono in caduta libera da anni e sono sopravvissuti solo grazie al fiuto di Artur Mas, prima; poi grazie alla volontà di non esporsi direttamente da parte delle sinistre moderate per l’indipendenza (ERC). Per assurdo proprio le destre liberiste, insomma i meno indipendentisti fra i nazionalisti, si sono identificati con la leadership del procés e ad essa hanno affidato tutta la propria credibilità o credito elettorale. Fallire avrebbe voluto dire veder accentuata l’emorragia di voti verso ERC; ma riuscire si è dimostrato sempre meno compatibile con un programma neoliberista. Imprese e imprenditori si sono svincolati da un’indipendenza che prometteva dazi, contrazione dei contratti pubblici (addio a quelli in suolo spagnolo), fine delle sovvenzioni europee e dell’ombrello BCE. Il trucco desiderato sarebbe stato proclamare l’indipendenza ma sospenderla indefinitamente, per prorogare all’infinito il procés e quindi la necessità che essi lo guidassero. Non ha funzionato, e adesso si sono visti obbligati a rilanciare la giocata, finendo però in un vicolo cieco.

ERC, la sinistra indipendentista moderata di Junqueras, pur continuando a proclamarsi indipendentista, sta in realtà – di nuovo, cinicamente – alla finestra. Se il procés dovesse aver successo, contano che saranno loro a governare la futura Catalogna indipendente, per una mera questione di numeri (sono di gran lunga il primo partito). Se il procés continua a galleggiare nell’aria perché Madrid riesce a imporsi, è chiaro che i nuovi portabandiera dietro ai quali si raccoglieranno i diseredati del catalanismo saranno loro. E così il grandissimo peso in quanto ago della bilancia di cui oggi approfittano nello Stato centrale, presso il Parlamento spagnolo, i nazionalisti delle Canarie o quelli baschi potrebbe andare a vantaggio anche dell’ERC. Dopo tutto, anche dichiarata l’indipendenza, i loro focosissimi e mediatici parlamentari attuali a Madrid non si sono certo dimessi una volta attuata la presunta indipendenza: sarebbe stato un gesto meramente estetico, dicono (dimenticando il versante economico). Accesi fustigatori di chiunque sulla platea nazionale, sono viceversa placidi, mimetici, accomodanti e comodi nella loro Grosse Koalition locale. A loro va più o meno tutto bene, sono coloro che si sono meno esposti dal punto di vista delle decisioni strategiche, anche se a parole e in immagini si mantengono luminosamente indipendentisti. Tutti sanno che loro lo sono, quindi non devono fare alcunché per dimostrarlo, salvo aspettare Godot.

Il grottesco viene accarezzato in queste ore: sembra che a fronte dei problemi legali prevedibili, previsti e ormai in arrivo a vele spiegate, i parlamentari di Junts pel Sí (l’alleanza di circostanza fra centrodestra e ERC) neghino ancora una volta di aver davvero ma proprio davvero dichiarato l’indipendenza. Il Parlament avrebbe votato solo una parte, meramente propositiva e non dispositiva, della legge. Peraltro, anche prima che intervenisse lo Stato centrale, la Gazzetta Ufficiale catalana non ha pubblicato nulla. Giuristi e costituzionalisti divisi e con le mani nei capelli.

In tutto ciò, non è fuori luogo notare che il famoso “popolo catalano” indipendentista conta circa due milioni di votanti favorevoli su cinque milioni e mezzo di base elettorale, cioè – se contiamo anche i minorenni – diciamo 2,7 milioni di abitanti su un totale di 7,5. Sono numeri pressoché immobili da quasi un decennio, dopo una prima impennata avvenuta intorno al 2009. Ci sono oscillazioni, ma sono minime, e i punti di picco sono di durata ben più breve che le lunghe fasi in cui si scivola sotto alla soglia attuale (per disaffezione e perché a questi numeri si giunge solo esasperando la tensione e la rabbia). A titolo di esempio si può consultare questo articolo che riporta in dettaglio le rilevazioni del CEO, il centro studi catalano sull’opinione pubblica.

Prima della fibrillazione attuale, l’unica rilevazione dell’ultimo biennio in cui si sia stimata una prevalenza dei votanti favorevoli sui votanti contrari (sempre e comunque al di sotto del 50% degli aventi diritto) è stata nel luglio 2016. Il referendum del primo ottobre, cui pare sia già stata intitolata una via a El Vendrell, ha ottenuto un risultato percentuale simile a quello lombardo di Maroni, cui è pure accomunato dalla disomogeneità geografica del voto tra città e provincia profonda: un esito modesto se non fallimentare in Italia, a stento riscattabile facendo appello alla luce riflessa del Veneto; il pretesto per uno psicodramma collettivo in Spagna.

Questi dati impongono due riflessioni: la prima, se vogliamo “romantica”, solleva un enorme punto di domanda sulla travolgente forza di invisibilizzazione che la narrazione indipendentista riesce ad esercitare sulla maggioranza della società catalana che non si identifica con questo ideale. Ogni singolo indipendentista nelle commoventi coreografie durkheimiane della Diada (il cui focus è il poble català come tale) possiede un’ombra che preferirebbe di no. Anzi: che voterebbe “no”. Che ne è di queste ombre che, dopo tutto, non sono ombre ma persone? Non sono catalani? Non contano? Quale futuro prevede per costoro il racconto nazionale? La risposta, quelle rare volte in cui si manifesta una risposta, è: “li tollereremo”. Il che già definisce come si pensa di organizzare l’identità e il potere nella repubblica sognata: noi soggetto, essi oggetto. Sarebbe ancor più interessante, se possibile, comprendere la sociologia di quel milione e mezzo di persone (27% degli aventi diritto) che non si considera interessata a decidere su qualcosa di così sostanziale, e pervasivo su scala globale, come la propria cittadinanza: un dato critico (pensiamo allo ius soli in Italia) alla cui conflittuale costruzione oltre una persona su quattro, nella fervente Catalogna odierna, rifiuta di partecipare. Un’abrasione profonda dell’identità nelle sue qualificazioni politiche.

La seconda riflessione riguarda la continua necessità di pungolare il turgore indipendentista affinché non si smonti: uno stato di eccezione ed eccitazione permanente è un requisito indispensabile affinché prenda corpo il mito nazionale, e con esso la capacità lévi-straussiana del discorso mitico che colma lacune, articola contraddizioni, organizza filamenti di memoria in una parvenza di senso. Ma un procés è per definizione dinamico: deve procedere, appunto. Al contempo, se si vuole mantenere l’eccitazione, sono richiesti stimoli via via più intensi. Com’è possibile perpetuare questa condizione così politicamente fruttuosa senza che sfoci in un finale di partita che obbligherebbe a cambiare gioco? La risposta sembrerebbe un moderno paradosso di Zenone: avvicinarsi sempre più precipitosamente all’indipendenza senza attuarla mai. Nel 2014 la Consulta, poi trasformata in “processo partecipativo” (un voto popolare senza valore referendario), nel 2015 le “elezioni plebiscitarie”, il primo ottobre il cosiddetto referendum, ora le nuove elezioni regionali del 21 dicembre a cui tutti, alla fin fine, vogliono partecipare. Tra ottobre e dicembre, l’indipendenza dichiarata e sospesa, poi votata e quindi rinnegata, come in un fort/da freudiano.

La repressione di Rajoy lascia sempre un margine di manovra affinché la tartaruga possa scappare un passettino più in là (non mancando di rifilarle cammin facendo qualche sadica pedata). Rassicurato dalla intrinseca soggezione del potere giudiziario a quello politico nel sistema spagnolo, il premier sa di avere sempre in serbo un jolly prezioso nelle aule di tribunale, nella polizia, nelle carceri: il monopolio dell’uso legittimo della forza che sostanzia lo Stato, col valore aggiunto di non doversi compromettere in prima persona dacché la Giustizia formalmente agisce d’ufficio.

Rajoy crede dunque di potersi permettere ogni titubanza e ogni provocazione, in funzione dell’esasperazione di questo utile conflitto. Le forze economiche che se ne vanno dalla Catalogna a causa dell’instabilità vengono risucchiate dal resto di Spagna, e molte di esse (al di là della sede nominale delle imprese) rafforzano Madrid capitale. L’indipendentismo sarà poi il capro espiatorio ideale quando arriverà il redde rationem della bolla economica altamente instabile su cui la Spagna ha costruito la propria apparente ripresa. Ma, anche nel breve, già il fatto stesso di arrivare a esercitare un qualche potere diretto su una regione in cui non si avrebbe nessun peso elettorale, e che prima era profondamente autonoma, non è poco. Se l’autonomia verrà davvero revocata nella pratica, il potere centrale avrà occasione di collocare piazzeforti e presidi (di natura politica, anche più cruciali che quelli militari) in un’area enorme in peso e popolazione che prima era sostanzialmente fuori controllo, e non certo per l’indipendentismo bensì per la fortissima autonomia di cui usufruiscono le regioni spagnole.

Fin qui la teoria. Però nel tempo infinitamente compresso del paradosso di Zenone i partiti rischiano ad ogni istante di vedersi schiacciati sulla tattica, perdendo ogni parvenza di prospettiva e strategia: si rischia di entrare in uno spazio di singolarità che frantumerebbe la razionalità sottesa a ogni cinismo. La questione interessantissima dal punto di vista politologico quanto tragica da quello sociale è che cosa fare quando un numero altissimo di cittadini (il 6% dei cittadini spagnoli!), seppur minoritario anche a scala regionale, vive un senso di alienazione totale rispetto allo Stato di appartenenza, denotando pure un certo scollamento percettivo rispetto al substrato materiale ed economico, o al divenire storico. Un corposo investimento di denaro in buona parte pubblico, asservito ai dettami della politica più spicciola e opportunista, ha imbastito una colossale macchina di realtà parallela (con un caposaldo nelle televisioni): ora che quasi tre milioni di persone vivono con innegabile carica emotiva un sogno imbastito di contraddizioni, quest’ultimo diverrà “reale nelle sue conseguenze”? E tali conseguenze saranno quelle attese in coerenza con il sogno, o quelle dettate dalle strutture soggiacenti?

Gabriele Bugada

 

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