CULTURA

La società della stanchezza

Coreano di nascita, Byung-Chul Han vive da molti anni in Germania, dove ha preso il suo dottorato (nel 1994 a Friburgo, tesi su Heidegger) e dove oggi insegna filosofia e teoria dei media alla Staatliche Hochschule für Gestaltung di Karlsuhe. Non molto di più su di lui si sa: come nota la voce di Wikipedia (in inglese) a lui dedicata, Han preferisce non rilasciare interviste radiofoniche e televisive né divulgare i suoi dati personali. E difatti nel suo ultimo libro, uscito da poco a Berlino (Transparenzgesellschaft, Matthes & Seitz, 2012), lo studioso individua nella pervasiva trasparenza che connota i social network e in generale lo stile di vita della contemporaneità una sorta di dittatura messa in atto dal neoliberismo a detrimento di antichi valori sociali come il pudore o la fiducia.

In Italia, però, Han è noto soprattutto per un suo smilzo saggio del 2010, Müdigkeitsgesellschaft, tradotto quest'anno da Federica Buongiorno (La società della stanchezza, Nottetempo). Tratto caratteristico dei tempi in cui viviamo, oltre alla trasparenza, è per Han infatti – difficile dargli torto – una stanchezza che, per essere tanto diffusa e generalizzata, non è meno logorante e individuale. E il punto, in un certo senso, è proprio qui: la fatica cui pochi sembrano sfuggire e che conduce a una serie di patologie tipiche di questo inizio secolo (la depressione, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività, la sindrome da burnout...) non è data dall'esterno, ma siamo noi stessi a imporcela.

Non a caso, nella premessa alla sesta edizione tedesca, posta in capo al libro, Han vede nel mito di Prometeo “una rappresentazione dell'odierno soggetto di prestazione, il quale usa violenza a se stesso”. In base a questa lettura, il soggetto di prestazione, Prometeo appunto, incatenato ma convinto di essere libero, è in guerra (una guerra inconsapevole, non per questo meno devastante) con il suo alter ego, l'aquila, che si ciba del suo fegato, un organo incapace di dolore. Proprio questo dolore lacerante e non percepito è la “stanchezza senza fine” della nostra società. Senza fine e senza confini, perché a mancare è l'antagonista, l'altro, il negativo.

Ormai, dice Han, siamo ben oltre la società disciplinare descritta da Foucault, ma in una “società della prestazione”, nella quale i cittadini sono gli imprenditori di se stessi. Al “non potere” della società disciplinare si è sostituito il “poter fare” (Yes, we Can) del nostro presente. E anche la violenza virale di cui parlava Baudrillard è stata superata da una violenza neuronale, che è tutta interna al sistema: una “violenza della positività”, caratterizzata da “un eccesso dell'Eguale”, una violenza che “non è privativa ma saturativa, non è esclusiva ma esaustiva”. E dunque esaurisce, in tutte le accezioni del termine.

Suona convincente e stimolante, la visione di Han (che si nutre, per affinità ma anche per contrapposizione, degli studi di Hannah Arendt, Agamben, Esposito), e tuttavia ci si chiede se quanto scrive a proposito delle teorie immunologiche – il fatto cioè “che un paradigma venga esplicitamente innalzato a oggetto della riflessione è spesso un segno della sua decadenza” – non valga anche per la sua “società della stanchezza”. Tanto esausta da essere pronta ormai a ritrovare, nel bene e nel male, la negatività che sembrava perduta.

 

Maria Teresa Carbone

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