CULTURA

Manifesto in difesa degli studi umanistici

“Perché tre intellettuali di ambito diverso, di formazione e anche d’ispirazione politica differente sentono il bisogno di intervenire congiuntamente su una questione che reputano di pubblico rilievo? Se ciò accade significa che qualcosa di fondo è cambiato nel rapporto tra cultura e politica del nostro Paese. Che le paratie ideologiche, che lo hanno da tempo segnato, non reggono più”. Per Roberto Esposito, Ernesto Galli della Loggia e Alberto Asor Rosa, autori del Manifesto degli studi umanistici, si può immaginare un futuro e un nuovo nesso tra le culture politiche di un Paese, il nostro, solo se si è in grado di considerarne l’origine, di prendersi cura del passato, facendo tesoro della propria memoria. E se la memoria s’identifica con il retaggio culturale, in Italia la tradizione umanistica ne diventa parte fondante. Ecco, allora, un Manifesto pubblicato sulla rivista del Mulino per ricordarci da dove veniamo e per ridefinire il ruolo della storia, della filosofia e della letteratura e riposizionarle al centro del panorama socio-culturale italiano.

Un appello lucido e coraggioso, quello lanciato dai tre intellettuali, che analizza limiti, trasformazioni ed eccessi del mondo della scuola e dell’università (dove, secondo i dati dell’Anvur, agenzia di valutazione dell’università, gli umanisti risultano ormai in assoluta minoranza). E osserva la crisi del “politico”, che “in Italia è stato costituito alle sue radici proprio da quel sapere", e della politica in senso proprio, "in cui si riflette il declino della cultura umanistica che tutto l’Occidente conosce da decenni”. Perché solo ripartendo dalla conoscenza della nostra storia, dall’identificazione, oggi scomparsa, “nella vicenda nazionale che ha rappresentato una premessa indispensabile per un compiuto impegno politico” potremo pensare di formare classi dirigenti più consapevoli e giuste.

Il Manifesto raggiunge dunque la politica ma parte dalla radice, dall’istruzione, con l’obiettivo di riconsegnare agli studi umanistici la dignità e il ruolo di guida in uno scenario ormai dominato da una diffusa tecnicizzazione (“con la divulgazione di modellistica pedagogica, l’uso sempre più diffuso di test e quiz, e poi di computer, lavagne luminose, internet”) e “dalla tesi complementare che l’istruzione, sia primaria che secondaria, debba avere sempre di più un carattere scientifico-tecnologico a scapito dei contenuti umanistici tradizionali”.

Il rischio? Per Esposito, Galli della Loggia e Asor Rosa è senz’altro quello d’essere accusati di “abbracciare una prospettiva passatista”, di guardare alle lezioni “superate” di Dante e Manzoni e non essere, quindi, calati nella contemporaneità, nelle necessarie evoluzioni sociali e culturali di un Paese che ha ormai imparato a misurare l’utilità della propria cultura osservandone la potenziale incidenza sulla crescita economica. Che, sul piano della lingua, ha da tempo riconosciuto il predominio dell’inglese e che, mettendo “al bando nell’apparato scolastico il sapere umanistico per privilegiare il sapere fondato sulle scienze naturali, ha messo al bando anche interi territori e dimensioni dello spirito e della conoscenza umani”.

Si legge: “Gli studi umanistici sono gli unici che per la loro stessa natura assicurano il legame con la specificità della dimensione storica della vita e – cosa non meno importante in un’epoca di dilagante egemonia dell’immagine – con la parola scritta. Le discipline scientifiche, le matematiche o l’ingegneria elettronica, la biologia molecolare o la geologia, sono dovunque le medesime, dovunque eguali a se stesse, e non a caso tendono sempre di più a esprimersi dovunque in una medesima lingua: l’inglese”.

La sfida parte da qui e dal tentativo di dimostrare che “la rimozione del proprio passato si sposa quasi sempre con una crisi del futuro”, che l’atteggiamento d’irriconoscenza nei confronti della propria memoria umanistica può solo affossare e rendere sterile il Paese.

A questo appello rispondono, ora, due scrittori e professori padovani, appartenenti a generazioni diverse, ma accomunati da uno stesso “sentire”. Da una parte Antonia Arslan, già docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’università di Padova, oggi saggista e scrittrice (da La masseria delle allodole al più recente Il libro di Mush). Dall’altra, un giovane ma già affermato scrittore e docente di Lettere, Matteo Righetto, autore del romanzo La pelle dell’orso e fondatore di Scuola Twain, un progetto di lettura e scrittura creativa per le scuole dedicato alla formazione di una nuova generazione di lettori e narratori. “Sono d’accordo con questo Manifesto, con un recupero e una valorizzazione del patrimonio e dell’essenza della cultura umanistica – commenta Righetto – Questo non è un approccio passatista, tutt’altro: gli studi umanistici sono un punto di partenza per la formazione e la crescita di una persona. Un percorso umanistico è addirittura propedeutico a qualsiasi altro percorso culturale, anche scientifico. Perché la cultura umanistica è da intendersi come la riflessione dell’uomo sul mondo. La letteratura, per esempio, ci aiuta a capire chi siamo. Ai miei studenti, lo dico sempre: leggere buoni romanzi facilita la conoscenza di sé e degli altri e aiuta a orientarsi nel mondo”.

Un commento e una posizione chiara, a cui seguono le parole di Antonia Arslan: “La modernizzazione necessaria di strutture antiquate e ‘vecchiumi’ della nostra cultura umanistica tradizionale non è stata fatta con una oculata scelta dei punti su cui intervenire, ma classificandola tutta come fuori moda e inutile per le sfide del futuro. La verità è che queste sfide esigono uno sguardo più ampio e il nostro patrimonio è anche quello di una tradizione ininterrotta. Un esempio su tutti, parto da un argomento di cui mi sono occupata: la scrittura femminile in Italia, e in particolare nel Veneto, risulta ininterrotta dal Trecento a oggi. Non è nata con il femminismo, è una tradizione d’indipendenza e scrittura autonoma che ha origini lontane. Considerare solo la produzione recente significa essere ciechi e favorire l’ossificazione di una scrittura che diventa ripetitiva e di un vocabolario impoverito. Oggi, qualsiasi parlante dialettale ha più ricchezza di vocabolario di un qualsiasi studente di scuola”. Una riflessione sulla lingua, questa, che ne introduce un’altra e che guarda al predominio dell’inglese: “Perché dire cash e non contanti? Perché dire shopper, che è anche un errore linguistico gravissimo in inglese, e non sacchetto? Sembra una banalità, ma si può sperimentare nella vita di tutti i giorni, comprando semplicemente la verdura al mercato. Perché questo frenetico uso dell’equivalente inglese di parole esistenti e usuali che noi buttiamo via?”. E sulla possibile accusa di passatismo, Arslan aggiunge e conclude: “La verità ci rende liberi. Ci dicano quello che vogliono, questa è una sfida che richiede coraggio. La cultura rende l’Italia un’eccezione assoluta nel mondo: questo Paese ha tutto in bellezze naturali e in capacità di antropizzazione del suolo. Quando capisci che questo arriva da dietro le tue spalle e che si proietterà oltre la tua vita, non puoi far altro che diventarne il custode”.

Francesca Boccaletto

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