SOCIETÀ

La globalizzazione del capitalismo

Oggi il libero mercato ha ormai fatto breccia nei paesi che sembravano alieni da tale ideologia: dal Giappone, dove una volta vigeva l’idea paternalista dell’impiego a vita, a Israele, che ormai rifiuta il socialismo dei suoi fondatori a favore di un capitalismo sfrenato temperato da massicce sovvenzioni per i coloni del West Bank e dei nuovi immigrati purché siano ebrei.  (La disuguaglianza del reddito è cresciuta più rapidamente in Israele che in altri paesi sviluppati secondo un rapporto della banca centrale israeliana). Anche in India, l'ispirazione socialista originaria del Partito del Congresso di Nehru e Ghandi ha dato luogo alle ripetute vittorie del partito nazionalista indù BJP (Bharatiya Janata Party o Partito Popolare Indiano) che ha scelto come priorità la crescita economica e il neoliberismo anziché il welfare

Dalla metà degli anni Ottanta le disuguaglianze sono aumentate in tutto il mondo. I paesi dove sono cresciuti di più sono Messico seguito dagli USA, poi da Israele, Italia, Gran Bretagna; sono invece diminuite in Francia, Grecia e Turchia.

Naturalmente c'è resistenza al neoliberismo, ci sono i cosiddetti movimenti anti-globalizzazione (come se si potesse tornare indietro), ma la debolezza di questa resistenza è evidente. Un sistema sociale può dirsi vincente non quando tutto va bene, ma quando funziona male e tutti, destra, sinistra e centro, fanno di tutto per salvarlo, come era chiaramente il caso con la crisi globale che si è aperta del 2007-8. 

Gli anti-capitalisti di oggi, a fronte del relativo successo del sistema, si concentrano sui suoi fallimenti, ma questo vuole dire ammettere che quello che non funziona è che il capitalismo non è ancora stato in grado di estendere il suo dominio includendo tutti. La povertà della maggioranza in Africa o della minoranza in Europa potrebbe essere causata dalla 'assenza' del capitalismo, piuttosto che dalla sua presenza. 

Di certo sono contraddizioni fondamentali al cuore del capitalismo moderno, e cioè che tra la forma di organizzazione del capitale – sempre più globale – e la sua regulation che è ancora prevalentemente nelle mani degli stati-nazione. 

Verso la fine del XIX secolo, i numerosi stati che volevano sorpassare o almeno raggiungere quello che allora era il paese d’avanguardia nella corsa al capitalismo, e cioè la Gran Bretagna, non avevano altra scelta che quella di rafforzare il loro stato nazionale. Senza uno stato potente, non ci poteva essere sviluppo industriale. L'idea che lo sviluppo capitalistico dovrebbe essere lasciato agli imprenditori non era presa molto sul serio. In ogni caso, in molti stati, gli imprenditori erano pochi e pochi quelli disposti o in grado di assumere rischi. I capitalisti hanno dovuto essere inventati, nutriti e protetti. È passato un secolo e il capitalismo è cresciuto ed è diventato maturo. Molti capitalisti e i loro difensori vogliono oggi liberarsi dall'abbraccio dello Stato, quello stato che li ha fatti, chiedendo un 'ritorno' allo stato minimo che essi immaginano esistesse 'ai bei vecchi tempi' (un mito ricorrente nella storia del mondo). 

Adam Smith, che molti ritengono essere il padre teorico del capitalismo (una parola che non ha mai adoperato) non aveva alcuna stima degli imprenditori: nel suo La ricchezza delle nazioni (The Wealth of Nations, 1776, lo stesso anno della Rivoluzione Americana) la famosa idea della mano invisibile (The invisible hand) è menzionato una sola volta, Smith descrive l'imprenditore come un operatore in gran parte inconsapevole in grado di vedere solo il proprio interesse immediato: “Generalmente... egli né intende promuovere l'interesse pubblico, e non sa neppure quanto lo promuove... Guarda solo alla propria sicurezza; ...Guarda solo al proprio guadagno; ...Non ho mai conosciuto imprenditori che siano interessati al commercio per il bene del pubblico”. 

Il capitalismo non è mai una questione di mera economia. La sua espansione genera problemi sociali e politici; la sua incapacità di espandersi ancora più problemi, anche se di natura diversa. Le odierne élite dominanti devono trovare il modo di garantire che il capitalismo si sviluppi senza eccessiva disgregazione politica e sociale. Ciò che è necessario è la formazione di una comunità nazionale, in cui tutti i gruppi, indipendentemente dalle loro differenze, hanno interesse nello sviluppo capitalistico. Ciò richiede un miglioramento costante e continuo delle condizioni di vita di molti in modo che gli individui considerino i propri problemi economici come cosa temporanea che li tocca solo come individui, non come qualcosa dovuto al sistema stesso. Devono ritenere che, comunque, il futuro sarà migliore, partecipando così all'idea ottimista di un continuo progresso – l’ottimismo, in fondo, è il fondamento ideologico del capitalismo. 

Poiché il capitalismo, a differenza di altri sistemi economici, ha forti tendenze anarchiche, addomesticarlo per salvarlo è essenziale. I capitalisti non controllano il capitalismo. Sono essi stessi (come pensavano sia Adam Smith che Karl Marx) prigionieri di un insieme di relazioni sociali in cui ognuno cerca di migliorare la propria posizione economica nell’ignoranza di quello che succederà agli altri o dopo. Certo le capacità imprenditoriali sono un fattore importante nella gara tra chi vince e chi perde. Ma le sorti della competizione sono anche nelle mani di cause esogene, per esempio la disponibilità delle materie prime, e le decisioni prese da altri nel passato e anche dalla fortuna. In una certa misura il successo del capitalismo dipende, come avrebbe detto Machiavelli se avesse insegnato in una business school, dalla combinazione di fortuna e virtù, cioè, sulle circostanze che gli individui devono affrontare e la loro capacità di sfruttarle a loro vantaggio.

Diversi fattori hanno determinato il successo del capitalismo nei trent'anni dopo il 1945: la famosa età d’oro del capitalismo. Uno, lo abbiamo già notato, è l'alleanza tra due forze non-capitaliste: social-democrazia sociale e democrazia cristiana, e dunque il capitalismo regolato dal ‘keynesiano welfare’. Un altro è la crescita spettacolare dell'economia americana. 

Ma di importanza decisiva fu la circolazione dei lavoratori da un paese all'altro oppure all’interno di un paese. E cioè l’emigrazione.

La migrazione della manodopera consentì un ampio grado di flessibilità della forza lavoro. Essa permetteva ai lavoratori già residenti (e che avevano beneficiato delle politiche di istruzione e di welfare) di muoversi in posti di lavoro di maggiore produttività e meglio retribuiti. Le posizioni da loro liberate potevano essere coperte da una forza lavoro migratoria molto meno esigente in termini di salari e condizioni di lavoro. L'esistenza di un grande serbatoio di migranti in cerca di lavoro era oggettivamente anti-inflazionistica perché conteneva aumenti salariali.

I lavoratori immigrati erano prevalentemente giovani maschi senza famiglie a carico. Questo rendeva le loro richieste in materia di welfare di gran lunga inferiori a quelle della forza lavoro residente. Gli immigrati non erano vecchi e quindi non avevano bisogno di una pensione; erano di solito in buona salute e quindi meno bisognosi di cure mediche, ma non erano neanche troppo giovani e quindi non bisognosi di cure particolari o di istruzione. Insomma la prima ondata di immigrati ha contribuito molto di più all'economia nazionale di quanto non ne abbiano ricevuto in cambio.

Il paese che ha beneficiato di più di questo flusso di lavoro fu la Germania Ovest, essendo questo il destinatario di un flusso costante di rifugiati altamente qualificati espulsi dalla Polonia e dalla Cecoslovacchia dopo il 1945 ai quali si aggiungevano i profughi dalla DDR. Nel 1953 erano ben 12 milioni i cosiddetti Heimatvertriebene (‘espulsi dalla loro patria’) nella Germania occidentale.

Erano l'immigrato ideale: conoscevano la lingua, condividevano la cultura e le abitudini e tenevano i salari medi tedeschi ben al di sotto quello che sarebbero stati altrimenti. Un afflusso non dissimile si è verificato in Italia, dal Sud al Nord. Questo, insieme con le rimesse dagli immigrati italiani in Belgio, Svizzera, Inghilterra e Francia, fu una delle condizioni principali che permisero il famoso miracolo economico dell’Italia. 

Ma il capitalismo di oggi è notevolmente cambiato. Il lavoro che si importa è concentrato nei servizi e nell’agricoltura, più che nell’industria. Il capitalismo occidentale è sempre meno manifatturiero, e sempre di più un capitalismo finanziario. 

Questa ‘finanziarizzazione’ dell'economia mondiale fa parte di una nuova divisione internazionale del lavoro in base al quale la produzione è concentrata in Oriente soprattutto in Cina e la finanza e le innovazioni restano una prerogativa occidentale, sopratutto americana, basta pensare al software dei computer, e a Apple, a Facebook, Twitter e Google.

Questa nuova divisione del lavoro è destinata a continuare? Cosa succederà? Ai vecchi tempi delle società agricole ci si preoccupava del tempo, della grandine, della pioggia, della siccità. Oggi ci si preoccupa della natura imprevedibile dell’economia globale. 

Ma c'è un’altro problema al quale il capitalismo deve fare fronte: i limiti ecologici dello sviluppo. Oggi, i principali ostacoli alla continua espansione del capitalismo non sono la lotta di classe, o le aspirazioni rivoluzionarie dei dannati della terra, o l’avanzata minacciosa dei fondamentalisti islamici, ma l'ecologia del pianeta. 

Paradossalmente l’aumento di democrazia diventa un problema. Se non vi sono soluzioni di tipo tecnico per risolvere la questione ecologica (tipo energia solare) e se la soluzione principale è la diminuzione dei consumi, allora ci troveremo tutti in difficoltà e sopratutto i giovani, i futuri cittadini e consumatori. È difficile immaginare uno scenario in cui i politici spieghino ai loro elettori, aspettandosi di ottenere voti, che occorre mettere fine ai trasporti privati, fine ai viaggi a basso costo all'estero, a molti dei nostri gadget, ai modi di consumare musica, ai vestiti a buon mercato, al cibo a buon mercato che proviene da paesi lontani, ecc. e tornare ai tempi in cui la maggior parte dei piaceri del consumo erano la prerogativa dei ricchi. Né sarebbe realistico aspettarsi che i tre miliardi di persone in Cina e nel sub-continente indiano che mirano a godere di uno stile vita e di consumi 'occidentale' se ne tornino pacificamente al consumo spartano di ieri, mentre noi in occidente continuiamo a crogiolarci nei piaceri del capitalismo. 

Insomma può il capitalismo che conosciamo diventare globale senza danneggiare il nostro globo? Questa è la domanda più importante che si presenta a tutti noi e come tutte le domande veramente importanti non è di facile risposta.

Donald Sassoon

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