UNIVERSITÀ E SCUOLA

“La buona scuola”: una rivoluzione a metà

Dopo tanti annunci finalmente un testo ufficiale su cui riflettere e confrontarsi. Il disegno di legge “La buona scuola”, trascorso quasi un mese di rinvii rispetto ai primi annunci di presentazione al Consiglio dei Ministri, è arrivato alla Camera ed è stato finalmente assegnato alla commissione Cultura, che ha iniziato le audizioni preliminari con esperti e rappresentanti delle categorie interessate. In attesa di analisi approfondite, possiamo proporre alcune osservazioni generali, anche in relazione alle enormi aspettative che il provvedimento ha suscitato e le reazioni che sta già provocando (i sindacati del comparto scuola hanno proclamato dal 9 al 18 aprile uno sciopero di docenti e Ata per tutte le attività che eccedono l’orario obbligatorio).

“La buona scuola” interviene subito su un numero limitato, seppure fondamentale, di temi: ridefinizione degli organici, ruolo del dirigente scolastico, revisione dell’offerta formativa, alternanza scuola-lavoro, valorizzazione del merito per i docenti, agevolazioni fiscali, edilizia scolastica. Ma la vera riforma è affidata ai decreti legislativi che il governo viene delegato ad adottare entro diciotto mesi dall’entrata in vigore del disegno di legge. È in base alla delega che si deciderà il futuro della scuola italiana: l’ampiezza dei contenuti della delega è sconfinata, ed è proprio sulle sue dimensioni (e sulla sua vaghezza) che si basano molte delle proteste che si sono accese negli ultimi giorni.

In attesa che inizi il dibattito in commissione e poi in aula, cerchiamo di riassumere gli aspetti salienti del disegno di legge nella parte subito operativa. Uno dei punti più attesi riguardava il piano straordinario di assunzioni a tempo indeterminato per l’anno scolastico 2015-16, da ripartire tra gli iscritti nelle graduatorie a esaurimento e i vincitori del concorso del 2012. Le assunzioni a settembre (sempre che “La buona scuola” venga approvata in tempo) saranno, secondo il ministro, 100.700. Penalizzati, per il momento, sono i precari della scuola dell’infanzia, la disciplina della quale (organici inclusi) è integralmente demandata alla delega al governo.

Per essere assunti, i candidati in possesso dei requisiti dovranno presentare domanda secondo modalità e tempi che verranno precisati in un avviso pubblico. La proposta di assunzione, che poi i candidati riceveranno, dovrà essere accettata entro dieci giorni dalla ricezione, pena la rinuncia al posto. I neoassunti saranno sottoposti a un periodo di prova di 180 giorni, di cui 120 di attività didattiche: la valutazione circa il superamento della prova sarà a cura del dirigente scolastico. Per quanto concerne le future assunzioni a tempo determinato, saranno consentite entro il tetto di trentasei mesi, anche non continuativi. Infine, il nuovo concorso: il governo assicura che verrà bandito entro l’anno, decisione che sembra obbligata di fronte alle proteste delle categorie escluse dalla stabilizzazione (il piano “La buona scuola” prevedeva l’assunzione di 148.000 docenti a settembre 2015 più altri 40.000 con il concorso).

Esaurito il capitolo assunzioni, la sostanza della riforma è sicuramente il nuovo ruolo attribuito al dirigente scolastico, la cui autonomia e funzione si dichiara di voler rafforzare fin dalle prime righe all’articolo 2. È lui il perno del sistema disegnato dalla proposta, a lui spetta il compito di “garantire un’efficiente gestione delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche e materiali”. E per farlo ha diversi strumenti: nomina la sua “squadra” di insegnanti attraverso incarichi triennali rinnovabili, e soprattutto elabora e applica il piano triennale, vero e proprio architrave della programmazione didattica, finanziaria, amministrativa e organizzativa, che approva dopo aver “sentito” collegio dei docenti e consiglio d’istituto (sembra trattarsi quindi di un parere non vincolante).

Sempre il dirigente distribuisce al corpo docente i premi in base al merito, per i quali l’articolo 11 stanzia 200 milioni annui dal 2016. Gli assegnatari vengono decisi “sentito” il consiglio d’istituto, sulla base della valutazione dell’attività didattica e in ragione dei risultati ottenuti. Una norma di cui bisognerà constatare nel tempo la reale applicazione, visto che nulla impedisce che gli emolumenti possano essere distribuiti a pioggia, vanificandone il senso. Per la formazione e l’aggiornamento dei docenti è inoltre prevista la Carta elettronica, un bonus di 500 euro annui che ogni insegnante potrà utilizzare in una pluralità di modi: dalla frequenza a corsi di formazione all’acquisto di libri o software, da biglietti per rappresentazioni teatrali e cinematografiche all’ingresso a musei e mostre. Una scelta che, ci si augura, non dovrebbe esaurire gli obblighi riguardo alla formazione dei docenti (ora definita “obbligatoria, permanente e strutturale”), demandata all’autonomia delle singole istituzioni scolastiche sulla base del piano triennale e di quello nazionale adottato dal Miur.

Sul “preside manager” si è concentrata parte delle prime critiche. Il nuovo dirigente è chiamato a dare un’impronta molto personale alla gestione della “sua” scuola, per quanto riguarda tra l’altro l’introduzione di insegnamenti opzionali (art. 3), l’organizzazione dell’apertura pomeridiana, la riduzione del numero degli alunni per classe, l’incremento dell’alternanza scuola-lavoro, la promozione di “percorsi formativi individualizzati” e la “valorizzazione del merito degli alunni e degli studenti”. Il tutto attraverso la predisposizione per l’istituto di piani triennali dell’offerta formativa, valutati dall’ufficio scolastico regionale e poi comunicati al Miur, che provvederà materialmente alla ripartizione dei mezzi “nell’ambito delle risorse disponibili”. Un iter amministrativo che si preannuncia complesso e di macchinosa applicazione. Forse anche per contrappeso a una gestione molto accentrata, il ddl prevede la pubblicazione di un “portale unico dei dati della scuola” (articolo 14) che dovrebbe garantire la trasparenza didattica e amministrativa, rendendo accessibili virtualmente a tutti i dati relativi a bilanci, valutazioni, edilizia e materiali scolastici.

Per quanto riguarda l’arricchimento dell’offerta formativa, il disegno di legge elenca le priorità in base alle quali i dirigenti scolastici dovranno orientare le scelte. La lista inizia con la “valorizzazione e il potenziamento delle competenze linguistiche”, con italiano e inglese messi eloquentemente sullo stesso piano, e l’indicazione esplicita del metodo del Content Language Integrated Learning, che consiste nell’usare la lingua straniera nell’insegnamento di una o più materie curricolari (a proposito: non sarebbe meglio usare un’espressione italiana, in un testo di legge nazionale?). Impegno, quello a favore dell’insegnamento delle lingue, ribadito anche nel comma 14 dello stesso articolo 2, dove nella scelta degli insegnanti di inglese della scuola primaria si assegna la precedenza a docenti madrelingua o almeno abilitati nella specifica classe di concorso (un’ovvietà evidentemente non così pacifica), adombrando in alternativa il ricorso alla fornitura di appositi servizi da parte di società esterne, sempre “nei limiti delle risorse a disposizione”.

Dopo le lingue, le priorità didattiche citate sono le “competenze matematico-logiche e scientifiche”, musica, arte, diritto, economia, educazione civica, produzione audiovisiva, educazione fisica, competenze digitali, italiano per gli alunni stranieri.

Grande importanza viene data anche alla digitalizzazione, intesa sia come sviluppo delle competenze che come utilizzo degli strumenti didattici, e ai rapporti con il mondo del lavoro. All’articolo 4 sono previsti cospicui “percorsi di alternanza scuola-lavoro” non solo per le scuole tecniche e professionali (almeno 400 ore per il secondo biennio e l’ultimo anno), ma anche per i licei (200 ore nel triennio). Lavoro che potrà essere svolto anche durante le vacanze scolastiche, oppure con la modalità dell’“impresa formativa simulata”, e che per le scuole professionali dovrebbe poter prendere, a partire dal secondo anno, anche la forma di un contratto di apprendistato. Sarà inoltre possibile dar luogo a “laboratori territoriali per l’occupabilità” attraverso la compartecipazione di soggetti pubblici e privati, come università, associazioni e imprese, anche per un “orientamento della didattica e della formazione ai settori strategici del Made in Italy, in base alla vocazione produttiva di ciascun territorio” e l’organizzazione di “servizi propedeutici al collocamento al lavoro o alla riqualificazione di giovani non occupati”.

Infine, novità nella disciplina tributaria: viene data la possibilità a tutte le “istituzioni scolastiche del sistema nazionale di istruzione”, quindi sia statali che paritarie, di accedere ai finanziamenti del cinque per mille e di accettare erogazioni liberali, in quest’ultimo caso generando un credito d’imposta in capo al donatore, sia esso persona fisica, ente non commerciale o soggetto titolare di reddito d’impresa. E l’articolo 17 introduce una detrazione per le rette delle scuole dell’infanzia e primarie, statali e paritarie, per un importo non superiore a 400 euro annui per alunno o studente.

A breve il disegno di legge dovrà affrontare l’esame delle forze politiche: solo a quel punto sapremo se la promessa del governo (approvazione entro maggio per garantire l’avvio immediato della riforma, con le assunzioni a settembre) potrà essere realizzata.

Daniele Mont D’ArpizioMartino Periti

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