CULTURA

La “biobanca” delle malattie scomparse

Molte malattie oggi non esistono quasi più, specie nei Paesi europei, o almeno non si manifestano con la gravità di un tempo. Questo si deve evidentemente ai progressi compiuti in ambito medico. Su tutti, a titolo di esempio, si pensi all’importante contributo di Robert Koch che nell’Ottocento per la prima volta descrisse il ruolo di un agente patogeno nell’insorgere di una malattia, ponendo in questo modo le basi della moderna batteriologia. Se oggi gli studenti di medicina, ma anche il pubblico non specializzato, hanno ancora la possibilità di vedere gli esiti di patologie ormai scomparse, contestualizzandoli all’epoca di appartenenza, è anche grazie alle collezioni museali di ambito medico. È il caso della raccolta padovana di preparati anatomo-patologici del dipartimento di Scienze cardiologiche toraciche e vascolari, oggetto recentemente di un corposo volume dal titolo Testo Atlante di patologia nella storia. Dal Museo di Anatomia patologica dell’università di Padova

La collezione comprende reperti con patologie che interessano l’apparato scheletrico, quello respiratorio, il sistema nervoso e l’apparato cardiovascolare, malformazioni a carico del fegato e dell’apparato urinario. Senza contare la sezione, probabilmente quella che suscita il maggiore impatto emotivo su un pubblico di non specialisti, dedicata alle malformazioni fetali. Si tratta di centinaia di esemplari anatomo-patologici (conservati in formalina o con la tecnica della cerificazione o della tannizzazione), tutti fotografati e raccolti nell’Atlante, che testimoniano vari tipi di patologie in un’epoca in cui la cura era ancora inesistente e il medico assumeva un ruolo di impotente assistenza. Gli autori la definiscono una sorta di “biobanca”, un archivio materiale fonte di preziose informazioni visive e strutturali sulle malattie del passato e del presente.

“L’Atlante – sottolinea Alberto Zanatta, uno degli autori – è stato realizzato per documentare la qualità del materiale raccolto nelle collezioni del museo di Anatomia patologica e ha lo scopo sia di rendere fruibili i reperti anatomo-patologici, trasformandoli in un vero e proprio strumento didattico, sia di far conoscere l’antica tradizione padovana del ‘museo laboratorio’”. E non a caso oltre agli studenti e ai docenti di medicina, anche varie scolaresche hanno manifestato il loro interesse nei confronti di questo patrimonio. Conservazione, didattica e ricerca vanno dunque a braccetto e trovano la loro ragion d’essere in una consuetudine che risale a quasi due secoli fa.   

Nel Settecento le collezioni anatomiche e anatomo-patologiche erano per lo più private e conservate nelle case dei medici, come nel caso di Giovanni Battista Morgagni, anche se pensate a fini didattici e aperte al pubblico, allo stesso modo in cui all’epoca lo erano le lezioni di anatomia. Un secolo più tardi quest’abitudine venne meno: solo gli studenti potevano assistere alle dissezioni e per questo  le collezioni trovavano spazio negli istituti universitari e ospedalieri con una precipua finalità didattica. Nel tempo gli sviluppi in ambito tecnologico resero disponibili nuovi strumenti per la conservazione “virtuale” dei reperti patologici (basti pensare alla riproduzione fotografica o alla videoproiezione), tra l’altro a costi non troppo elevati, ma la pratica di conservare preparati in formalina non fu mai abbandonata. E ciò perché, sottolinea Fabio Zampieri, “la tridimensionalità e la fisicità del reperto anatomo-patologico rimane ancora oggi, nonostante gli avanzamenti tecnologici, un elemento essenziale nella ricerca e nella formazione del medico, così come l’esperienza della pratica autoptica non potrà mai essere sostituita da modalità maggiormente ‘virtuali’ ”.  

Fin dai primi anni dell’Ottocento si ha notizia a Padova di un “gabinetto anatomico” istituito da Leopoldo Marco Antonio Caldani. Successivamente Francesco Luigi Fanzago fondò un “gabinetto anatomo-patologico” in cui conservare reperti di sua preparazione. Fu tuttavia solo nella seconda metà dell’Ottocento che ebbe inizio la collezione di reperti di anatomia patologica grazie al lavoro di Ludovico Brunetti, primo docente di anatomia patologica all’università di Padova dal 1855 al 1887 e direttore dell’istituto di Anatomia patologica creato negli anni Settanta. Alla direzione dell’istituto si succedettero Augusto Bonome (dal 1889 al 1922), Ignazio Salvioli (dal 1922 al 1923) e Giovanni Cagnetto (1874-1943). “L’anatomia patologica – spiega Gaetano Thiene coautore dell’Atlante – ebbe un ruolo di primo piano nella medicina, perché sviluppò l’indagine patologica nella direzione dell’analisi delle lesioni organiche in grado di giustificare i processi patogenetici e il decorso clinico delle malattie”. 

Costituita quasi integralmente tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, la collezione consta di 1.307 reperti. In seguito le nuove leggi sanitarie emanate in Italia nel 1933, che regolamentavano la consegna e l’utilizzo dei cadaveri nelle sale anatomiche, rallentò la possibilità di ampliare il patrimonio posseduto. Al nucleo più antico, tuttavia, furono aggiunti a partire dagli anni Sessanta del Novecento molti preparati in formalina di patologie cardiache che costituiscono la parte più moderna della collezione. 

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