UNIVERSITÀ E SCUOLA

Candidati rettore, il confronto

A partire dal 3+2 si è avuta in Italia una proliferazione dei corsi di studio. Questo senza che il miglioramento delle prospettive occupazionali abbia rispettato appieno le attese e con solo una parte degli immatricolati che arriva in fondo nei tempi previsti. È necessario mettere ordine nell'offerta didattica? E come? 

Rizzuto: assolutamente sì. È necessario rispondere a un bisogno del Paese e a una domanda che viene dall’Europa: un numero più elevato di laureati e soprattutto di qualità. Ma un’offerta formativa di alta qualità, adatta alle necessità del mondo produttivo, richiede all’università di lavorare unita. Serve un assetto che permetta la coesione dei 32 dipartimenti, spingendoli a trovare soluzioni per una offerta didattica “comprensiva”, che faccia appello alle competenze di tutti i dipartimenti. Insomma è necessario un ripensamento del ruolo delle Scuole di ateneo e un sistema di incentivi che premi l’impegno e i buoni risultati: non va infatti riconosciuta e premiata solo la ricerca, ma anche la didattica.

Tenti: i temi sono diversi. Da una parte c’è la questione della quantità di corsi di laurea che offriamo e di una revisione dell’offerta formativa che tenga conto del calo significativo nel numero dei docenti degli ultimi anni. C’è poi una questione di formidabile importanza: la qualità dei servizi didattici. Infatti, tra le cause dell’elevato numero di abbandoni vi è anche il fatto che non tutti gli studenti riescono a seguire correttamente i corsi. Ed è quindi necessario usare i moderni strumenti dell’e-learning, della didattica a distanza e dei corsi blended, che mescolano didattica frontale a quella online. Sulle difficoltà di collocamento lavorativo serve invece un’azione sinergica dell’università e delle istituzioni regionali: devono nascere luoghi in cui si svolga educazione continua e formazione dedicata, luoghi dove l’industria incontri davvero l’università. 

Oggi uno studente può seguire un intero corso di laurea di Harvard su Internet. I corsi online, fruibili in lingua inglese, sono davvero il futuro dell’università?

Tenti: i Mooc (massive open online courses, Ndr) hanno già visto l’università di Padova impegnata con due corsi sviluppati da un nostro centro, il Cmela, e usciti con molto successo sulla piattaforma tedesca Iversity. Si tratta di strumenti complessi, che richiedono grande professionalità e che diventeranno indispensabili per non arretrare nell’erogazione della didattica a distanza. C’è un futuro certo per questi corsi e noi partiamo da una piattaforma con grande esperienza di e-learning e penso che ci impegneremo su questa strada così come hanno già fatto altri grandi atenei.

Rizzuto: i corsi online sono una parte del futuro dell’università. La grande qualità dell’università si vede non solo dalla didattica erogata in modo tradizionale, ma anche dalla possibilità di seguire laboratori e di avvicinarsi alla parte pratica di una professione. Aspetti che non possono essere sostituiti da un corso online. Un grande ateneo come quello di Padova deve usare al meglio le nuove tecnologie in almeno due modi: con il blended learning, per favorire un rapporto flessibile tra insegnamento frontale e telematico e migliorare così l’accessibilità e la partecipazione di comunità più ampie. Poi con i Mooc, uno strumento che può servire a ridurre i debiti formativi in ingresso. Senza dimenticare che le piattaforme online sono utili perché il mondo possa vedere cosa facciamo all’università di Padova.

Siamo nel momento dell'avvio delle immatricolazioni per il nuovo anno accademico. Quali saranno le vostre strategie per attrarre nuovi iscritti e qual è il vostro target?

Rizzuto: siamo un’università pubblica, che ha un dovere sociale verso il nostro territorio. Un dovere di capienza, per accogliere il maggior numero di studenti e raggiungere quell’obiettivo del 40% di laureati che ci chiede l’Unione europea e da cui siamo lontani (si tratta di uno degli obiettivi di Europa 2020 e riguarda la fascia d’età tra i 30 e i 34 anni, Ndr). Ma la seconda esigenza è quella di garantire corsi di ottima qualità e non solo ampi a livello numerico: senza qualità, infatti, non c’è didattica e la nostra stessa funzione sociale non sarebbe più garantita. Dobbiamo poi aprirci a un territorio più grande, reclutando intelligenze da tutto il mondo così da portare equilibrio nel rapporto tra fuoriuscita e ingresso di cervelli, il cosiddetto brain drain - brain gain. Quello che serve è una offerta didattica modulata: ampia all’inizio e altamente qualificata – talora in inglese – nelle fasi finali, così da far conoscere e sfruttare tutte le potenzialità dell’università.

Tenti: perché uno studente dovrebbe immatricolarsi a Padova piuttosto che da un’altra parte? Bisogna partire da questa domanda e per rispondere è necessario innanzitutto guardare avanti, preoccupandosi degli effettivi sbocchi lavorativi dei percorsi di studio. Una buona comunicazione istituzionale, poi, può orientare correttamente gli studenti che verranno a Padova perché riconoscono che ci sono le eccellenze e le competenze che servono proprio per entrare nel mondo del lavoro. Ed è necessario agire non solo sulla qualità della didattica ma anche su quella dei servizi offerti o dell’interazione che abbiamo con la città e il territorio. Altro tema importante è quello della proporzionalità tra numero di accessi e risorse a disposizione. Ad esempio quest’anno siamo stati condizionati a livello amministrativo da scelte che hanno gonfiato il numero degli iscritti al primo anno del corso di laurea in medicina: una situazione in cui qualità della didattica e dei servizi possono risultare in qualche modo danneggiati. 

Cosa pensate della rincorsa degli atenei ai posizionamenti nei ranking? I ranking sono funzionali all'università o sono uno strumento di marketing fine a se stesso?

Tenti: hanno conseguenze più importanti di quanto si pensi. Faccio spesso l’esempio di uno studente iraniano che avrebbe voluto iscriversi a Padova completamente finanziato dal suo governo e non ha potuto: l’Iran infatti finanzia solo la mobilità verso le prime 100 università al mondo. Il meccanismo del ranking, pur sembrando contestabile anche per l’uso degli strumenti adottati, certamente opinabili, ha assunto una sostanziale rilevanza. Di conseguenza serve uno sforzo collettivo di miglioramento ulteriore delle capacità di ricerca, di buona comunicazione, di reclutamento di docenti e scienziati di qualità da tutto il mondo: visto l’impatto che può avere, del posizionamento nei ranking si deve insomma tener conto nella politica di sviluppo dell’ateneo. 

Rizzuto: i ranking rappresentano il numero secco che uno studente di una qualsiasi parte del mondo guarda per stabilire quanto è buona l’università. Di conseguenza è giusto intervenire per migliorare questa classifica, per avere una posizione in linea con la qualità reale dell’ateneo. Credo che dovremmo intervenire sul ranking con cautela, attraverso criteri che garantiscono il miglioramento effettivo dell’università e non solo della sua immagine. Se per risalire la classifica dobbiamo migliorare la quantità di spazi verdi, preferisco avere la cattedra di Galileo piuttosto che un prato in più. Se invece il miglioramento riguarda la qualità dei servizi e l’internazionalizzazione del corpo studentesco, dei ricercatori e dei docenti questo dà valore. 

La riforma Gelmini attribuisce maggiore autonomia ai dipartimenti, fulcro dell'attività di didattica e ricerca dell'ateneo. Quale pensate debba essere il punto di equilibrio tra le esigenze di autonomia delle strutture e le esigenze di programmazione strategica dell'ateneo? 

Rizzuto: la responsabilizzazione di una struttura unica per le attività su cui si fonda l’università – la ricerca e la didattica – è un elemento positivo della riforma anche perché avvicina il potere decisionale a chi effettivamente svolge le attività che qualificano l’università. Il rischio è però quello di frammentare il potere decisionale e quello progettuale dell’università in tante entità distinte che, anziché mirare al bene superiore e comune, potrebbero perseguire l’interesse, legittimo e comprensibile, ma particolare di un singolo dipartimento. Si deve stabilire quindi un equilibrio tra la struttura responsabile e la visione comune dell’ateneo nel suo complesso. Riguardo a ricerca e didattica serve una filiera di strutture decisionali che permetta una sintesi. Ad esempio è opportuno che nelle Scuole sia concordata una didattica, frutto di una visione complessiva cosicché ciascun corso nasca dalla piena condivisione tra tutti i dipartimenti che vi concorrono. In questo modo la qualità e i risultati di quel corso possono tradursi in un premio, un incentivo effettivo al miglioramento di tutte le strutture che vi hanno partecipato.

Tenti: non credo che la visione possa essere dicotomica, dipartimenti-ateneo. Il punto centrale è trovare un’armonizzazione tra la legittima programmazione dei dipartimenti e quella dell’ateneo. Il nostro programma è strutturato per chiedere ai dipartimenti una programmazione triennale, in cui sarà inserita sia didattica sia la ricerca, perché possa essere armonizzata tra i dipartimenti e soprattutto rispetto alle linee strategiche dell’ateneo. Così si potranno confrontare le proposte, suggerire ai dipartimenti di trovarsi delle partnership o indurli, al limite, a fare una politica di sviluppo coerente con le risorse disponibili e con le linee guida di ateneo. Serve poi una revisione del ruolo delle Scuole. La scomparsa delle facoltà ha creato una lacuna, anche in termini di coordinamento didattico e di responsabilità decisionali: il modello che proponiamo dovrebbe restituire un miglior dialogo tra centro e periferia, tra i compiti dell’amministrazione centrale e quelli svolti da Scuole e dipartimenti, e ha anche l’obiettivo di evitare le inutili ripetizioni di deliberazioni o l’addensamento di compiti su alcune figure istituzionali. 

Trasformare i precari in ricercatori e dare una prospettiva di carriera ai docenti sono due tra gli impegni dichiarati. Quale priorità darete a questi impegni? In concreto, quante persone saranno coinvolte e con quali tempi?

Tenti: abbiamo più di 800 assegnisti in ateneo che si aspettano delle risposte, delle indicazioni per il loro futuro. Quella del reclutamento dei ricercatori di tipo A e di tipo B, previsti dalla legge Gelmini, è quindi una tematica di assoluto rilievo. Non è immaginabile che tutti e 800 gli assegnisti vengano reclutati, ma ci deve essere chiarezza su quello che è il reclutamento possibile e un’indicazione sui possibili sbocchi alternativi. Alla situazione attuale pensiamo si possa imbastire un piano per circa 200 ricercatori di tipo A nel corso di un triennio. Non è molto e non si sopperisce nemmeno al turn-over dei docenti, ma è il minimo che possiamo permetterci di fare. Pensiamo poi a un numero pari a circa la metà di ricercatori di tipo B, quelli che dopo una valutazione dell’attività alla fine di un triennio, se abilitati, possono diventare direttamente professori associati. Si tratta di un poderoso incremento del numero di giovani da inserire in ateneo, rispetto ai soli 13 dell’ultimo anno. A questo si aggiungerà una politica di progressione di carriera per coloro che hanno ricevuto l'abilitazione a professore associato: di questi interventi, peraltro compatibili con i limiti di Ffo (Fondo di funzionamento ordinario, Ndr), se ne dovrà far carico l’ateneo, visto che della annunciata fase due del piano speciale governativo non si vede al momento la fine. Diverso è il caso degli ordinari, le cui posizioni sono legate a particolari capacità di coordinamento scientifico e di sviluppo di ricerca avanzata.

Rizzuto: è priorità assoluta: non c’è niente di più grave del blocco del reclutamento dei giovani. Avere come imposizione il limite di assunzione di un 1 ricercatore di tipo A e di 1 di tipo B per dipartimento in un triennio rappresenta una perdita di risorse umane di straordinaria qualità per ragazzi che si sono impegnati e che conducono la ricerca nei dipartimenti. Come possiamo operare in un equilibrio di bilancio con i vincoli che abbiamo? La risposta è usando una quota, significativa, del nostro budget, poi utilizzando parte delle risorse esterne che arrivano all’ateneo e chiedendo risorse esterne al territorio al quale noi proponiamo un Patto per la crescita. E serve anche essere incisivi a livello governativo perché ci sia un piano giovani. Con queste premesse, noi stimiamo di poter far entrare come ricercatori di tipo A e B tra le 230 e le 400 persone nel triennio. Ci si dovrà poi impegnare nella progressione di carriera, secondo merito e impegno. È anche questa una priorità importante, perché comporta un ringiovanimento dei ruoli, significa far arrivare ai ruoli apicali le nuove generazioni e le nuove idee. Quindi sugli associati e sugli ordinari noi stimiamo di dover impegnare circa un terzo del budget disponibile per permettere le progressioni di carriera. 

La valutazione della ricerca è al centro del dibattito accademico. Cosa pensate dell'efficacia degli attuali sistemi di valutazione a livello nazionale e interni all’ateneo?

Rizzuto: si tratta di un tema cruciale. La valutazione, spesso vista come un giudizio, anche morale, è invece uno stimolo alla crescita, al miglioramento. Nella nostra professione – la scienza – ci esponiamo continuamente alla valutazione: e sono proprio le valutazioni critiche lo stimolo che permette di migliorare e a volte di cambiare direzione di ricerca. La valutazione della ricerca trasferisce anche all’esterno l’immagine di quello che siamo: ci è stato riconosciuto di essere un’ottima università e non abbiamo timori di dimostrarlo. Deve però essere chiaro che non siamo soddisfatti perché non c’è niente di peggio della cattiva valutazione e gli strumenti utilizzati dalle agenzie valutative hanno ancora molta strada di miglioramento. Certo non possiamo giudicarci da soli – un meccanismo di peer review e un’agenzia con valutatori esterni è cruciale per una valutazione corretta – ma la valutazione deve essere attenta alle specificità e tener conto della diversità di prodotti e modalità di ricerca a seconda delle aree scientifiche. Nella valutazione deve poi entrare l’impatto e il ruolo dell’attività di ricerca: non solo il numero di pubblicazioni prodotte, ma l’effetto che generiamo in cultura e tecnologia nel nostro territorio. Per essere uno strumento di crescita la valutazione deve ampliarsi ed essere sempre più puntuale.

Tenti: la valutazione organizzata dall’Anvur pecca di alcune caratteristiche fondamentali in qualsiasi valutazione, come la intendono all’estero: la conoscenza a priori e la stabilità dei criteri di valutazione. Una valutazione a livello nazionale è sicuramente molto utile ma, non avendo una granularità sufficientemente elevata, non può dare indicazioni a livello locale in termini di ripartizione delle risorse. Per questo nella proposta che facciamo, collegata alla programmazione triennale dei dipartimenti c’è una confluenza delle risorse ai dipartimenti a seguito di un processo di valutazione locale. Parliamo di iniziative triennali che per le strutture avranno valore di alcuni milioni di euro. Su questi importi allora ha senso collocare una peer review internazionale per cui ciascun dipartimento si possa confrontare con esperti del settore, mettere a punto la progettazione e adottare gli eventuali correttivi. Il ricorso a questo strumento, già sperimentato in ateneo con la cosiddetta autovalutazione dei dipartimenti, permette di ottenere indicazioni molto precise sulla strada da intraprendere. E l’effetto combinato della valutazione nazionale con quella, più attenta, a livello locale può dare effettivamente una prospettiva di sviluppo corretto alle attività, in particolare quelle scientifiche, che l’ateneo svolge. 

Cosa deve chiedere l'ateneo alla città di Padova per essere più attrattiva e accogliente a livello nazionale e internazionale?

Tenti: se per territorio intendiamo solo la città, è chiaro che noi siamo, storicamente, molto ingombranti! I rapporti vanno assolutamente infittiti a vari livelli. Un approccio riconosciuto, ho già avuto modo di dire, anche in programmi politici delle recenti elezioni amministrative. I livelli di interazione partono dal mettere in comune i servizi in modo da sfruttare correttamente quelli che già noi offriamo. Mi riferisco in particolare all’ambito della salute, intesa in senso ampio, dei servizi alle famiglie e dei servizi di mobilità che molti studenti avvertono come problema significativo (soprattutto per chi opera fuori città come ad Agripolis). Ma penso soprattutto ai servizi di tipo culturale, perché l’ateneo è un grande presidio culturale in città. Abbiamo poli museali importanti e di straordinaria bellezza: collegarli in rete con quelli della città – come ad esempio Palazzo Cavalli con i Musei degli Eremitani – arricchirebbe e contribuirebbe a una forte integrazione con la città. E ci sono i servizi didattici, un settore da potenziare e dove, già oggi, cooperiamo con le scuole del territorio nella didattica e nella formazione. Insomma il tessuto connettivo di città e ateneo devono intercalarsi, perché abbiamo moltissimi ambiti di intervento comune.

Rizzuto: rovescerei la domanda, dicendo cosa chiede Padova alla sua università e cosa può dare l’università. È solo un luogo di formazione al quale arrivano gli studenti o è un grande valore per la città? La risposta, ovviamente, è la seconda: l’università dà tecnologia, dà salute, dà cultura. Tuttavia, se Padova molto spesso dà meno di quello che  potrebbe, è perché si riconosce poco nella sua università. Dobbiamo cominciare da qui, a impegnarci perché la città si riconosca davvero nella propria università. Allora verrà naturale interagire con le istituzioni e la cittadinanza e chiedere cose normali, quelle che una qualsiasi università internazionale riceve dalla propria città: i servizi, gli alloggi, le infrastrutture ma anche gli sbocchi occupazionali. Una maggiore conoscenza reciproca e un maggiore impegno si tradurranno in un naturale aumento di quello che l’ateneo farà per la sua città e di quello che la città naturalmente farà per la sua università. Una conoscenza molto forte richiede anche strumenti innovativi: per questo oltre ad aver proposto il bilancio sociale e l’aumento delle occasioni di università porte aperte, ho l’idea di un question time: il rettore incontra periodicamente istituzioni e città per comunicare quello che viene fatto ogni giorno per il proprio territorio. 

A più riprese avete parlato della necessità di sinergie con le imprese e gli enti istituzionali. In concreto come pensate di attrarre finanziamenti pubblici e privati a favore dell'università e della ricerca?

Rizzuto: non partiamo da zero: soprattutto i contatti con le imprese dell’area scientifico-tecnologica e di quella di ingegneria sono molto efficaci. I finanziamenti dalle imprese ai dipartimenti ammontano a circa 20 milioni di euro, quindi esiste già uno scambio di conoscenze, un impegno reciproco molto forte. Noi dobbiamo fare due cose: la prima è aumentare le possibilità di chi è già attivo perché riesca ancora meglio. L’ateneo agisce da facilitatore, senza sostituirsi ai dipartimenti, ma facendo crescere le occasioni di incontro: deve avere il club dell’innovazione, occasioni in cui imprenditori e ateneo si incontrano, deve aumentare lo scouting interno delle competenze, deve fare scuole di imprenditorialità all’interno dei dottorati di ricerca perché le competenze scientifiche si traducano in fretta in competenze imprenditoriali. Il secondo obiettivo è quello di chiamare le aree meno consapevoli della Terza missione, a partire da quella da cui provengo, ad essere sempre più attive negli interventi per le imprese. Serve portare questa cultura del trasferimento della conoscenza della tecnologia dalle aree naturalmente più vicine al mondo produttivo a quelle dove il trasferimento delle informazioni in Italia è molto meno sviluppato che in altri Paesi.

Tenti: molti dipartimenti attraggono finanziamenti ma lo fanno molto spesso fuori dal nostro territorio. Abbiamo presidi di eccellenza riconosciuti a livello mondiale, ma qui la tematica da affrontare è quella del rapporto con un territorio a media-bassa tecnologia, nel quale l’interazione va guidata. Si deve cambiare la logica del rapporto “punto a punto”, della collaborazione tra una specifica impresa e un singolo docente o laboratorio. Vorremmo intraprendere, con la Regione e con le forze produttive, un livello di progettazione strategica del territorio individuando i filoni da rafforzare e innestare su questo sperimentazioni di collegamento diretto tra gli ambiti industriali vocati all’innovazione e l’università. In questa situazione è inutile immaginare piani di collegamento di tutta l’università con il territorio, piuttosto è importante sperimentare iniziative di successo, come esistono in maniera estesa in Emilia-Romagna e Lombardia. Servono strumenti di interfaccia tra territorio e università ma all’interno di un disegno regionale degli interventi. Un disegno di sviluppo complessivo è infatti il primo passo verso una interazione che diventi poi continuativa. Oggi il fatto che le nostre migliori risorse di ricerca vengano spese in favore di entità internazionali è evidentemente una perdita per il Paese.

Nuovo ospedale: entrambi chiedete una struttura pensata per essere funzionale alla Scuola di medicina, ma quali sono le priorità assolute da inserire nella progettazione e quanto pesa il luogo di realizzazione?

Tenti: puntiamo ad avere un centro che, similmente a quanto accade nei centri di riferimento mondiale, possegga tutte le componenti che servono per fare una grande medicina, dal livello preclinico a quello della sperimentazione clinica. Questo vuol dire che tutte le attività – comprese le aule – devono convivere dentro a un unicum, in una formula che viene normalmente chiamata campus. Qualunque pezzo si sottragga a questo disegno, rende il sistema meno competitivo dal punto di vista scientifico e dal punto di vista della ricaduta sul territorio. Ci siamo sempre chiamati fuori dalle scelte territoriali, ma il luogo di costruzione deve ricalcare le caratteristiche che ho sopra espresso. L’università non si tirerà indietro e non si presenterà priva di risorse ad accettare decisioni prese da terzi. È un gioco che l’università dovrà giocare appieno, con tutta la sua capacità di incidere sulle decisioni e con la decisa motivazione a svolgere le opere che la riguardano più direttamente.

Rizzuto: la medicina universitaria padovana ­– la prima entità di ricerca medica in Italia – ha bisogno di vedere riconosciuto uno spazio e di ottenere il  riconoscimento economico delle proprie attività. Si tratta di un concetto importante, valido in tutto il mondo, che trasferisce la valorizzazione della medicina dal riconoscimento delle prestazioni al riconoscimento del suo valore complessivo. Una medicina che alla base ha scienza e alta qualità significa, per un territorio, la possibilità di attrarre pazienti da regioni e Paesi vicini; significa capacità di creare spin-off, brevetti e di portare i trial clinici di primo e secondo livello - cioè l’innovazione in campo biomedico - ad essere eseguiti in una struttura riconosciuta d’avanguardia. Su questo panorama, il nuovo ospedale rappresenta una sfida critica perché deve avere capienza e razionalità di costruzione in grado di contenere didattica, ricerca e assistenza nello stesso luogo. Se separiamo queste parti, dissociandole dal complesso dell’ospedale, tanto più lo facciamo assomigliare a un ospedale unicamente clinico, facendo perdere a tutto il territorio, non solo all’università, la sfida della medicina universitaria. La sede del nuovo ospedale non è di pertinenza dell’università e l’ateneo accetterà le scelte dei decisori politici. Ma le caratteristiche, le dimensioni complessive e il contenuto della struttura sono un argomento su cui l’università vuole avere una voce, perché così riesce a dare valore alla medicina universitaria. 

Nel corso del dibattito elettorale sono state avanzate critiche all'attuale sistema organizzativo e all'eccesso di burocrazia. Quali sono le vostre proposte e quali le priorità per indirizzare l'azione amministrativa dell'ateneo? 

Rizzuto: il passaggio al nuovo sistema, la transizione al sistema dipartimentale è stato un cambiamento radicale nell’organizzazione dell’università e questo deve essere accompagnato da una riorganizzazione significativa che ponga i dipartimenti al centro delle attività. Serve infatti una riorganizzazione dei servizi perché essi siano erogati nella maniera più efficiente e rapida ai dipartimenti. Se questo non succede – ed è l’esperienza degli anni passati – il tempo dei nostri docenti (qualunque ruolo svolgano) viene sempre più speso in attività burocratiche e gestionali e non nelle proprie missioni istituzionali. Crediamo nella necessità di un significativo cambiamento e in una significativa riorganizzazione da operare su diversi livelli. Serve la presenza di una squadra di governo, estremamente agile e snella, che abbia l’indirizzo politico delle funzioni di governo dell’ateneo; per riorganizzare la macchina amministrativa il direttore generale, il prorettore vicario e il delegato alla semplificazione e alla trasparenza devono concordare un nuovo assetto amministrativo che permetta corrispondenza piena tra la struttura organizzativa e le funzioni dei dipartimenti. Sul tema della semplificazione normativa: occorre una riduzione delle norme e anche un coraggio interpretativo che porti a diminuire i passaggi burocratici, spesso ridondanti, per accelerare i processi. Accanto a ciò serve una revisione degli assetti normativi, degli statuti e dei regolamenti, per andare nella direzione delineata. Da ultimo: deve esserci un’importante informatizzazione che garantisca trasparenza e accessibilità dei dati nei flussi interni all’ateneo.

Tenti: è necessario intervenire su due livelli. Il primo è quello della semplificazione regolamentare. L’università ha ingenerato forse più complessità di quelle che la stessa legge prevedeva, interpretando con molto rigore – anche eccessivo – le norme che arrivavano, di fatto bloccandoci su tanti aspetti. Sul sistema organizzativo si deve lavorare molto. La tematica principale è la separazione dei poteri di indirizzo e di quelli amministrativi. L’istituzione, da parte della legge Gelmini, del direttore generale come organo di ateneo ha attribuito a questa figura la piena responsabilità dell’ambito amministrativo. E questa divisione, oggetto anche di un disegno di legge in discussione, va attuata. Ci deve essere infatti una catena chiara di responsabilità e i dirigenti devono essere richiamati alla loro piena responsabilità. Serve poi ridisegnare il sistema delle procedure nell’ottica della qualità. Dall’esterno ciò si traduce in un sistema semplificato per l’accesso (con sportelli unici su diverse tematiche) e un sistema orientato alla soluzione dei problemi, non alla complessità dei problemi. Dal punto di vista interno significa una notevole organizzazione del lavoro, collegata a un benessere del lavoro molto più alto: questi sono i due obiettivi della qualità. A tutto questo si deve associare un sistema poderoso di formazione per costituire tutte le competenze necessarie, assieme a un ripensamento delle suddivisioni dei compiti e delle responsabilità tra strutture periferiche, i dipartimenti e l’amministrazione centrale. Si tratta di un disegno di riorganizzazione complessivo: richiederà un periodo di tempo elevato, ma non possiamo rinunciarvi. 

Si è sottolineata la necessità di rafforzare l'immagine dell'ateneo all'esterno e a livello internazionale. Il raggiungimento di questo obiettivo è legato anche a una buona circolazione interna delle informazioni. Quali sono i vostri obiettivi e quali i correttivi su questi aspetti?

Tenti: l’immagine viaggia sulle gambe degli ospiti che vengono da noi. E la qualità dei servizi che offriamo, siano studenti o scienziati, sarà la migliore testimonianza per l’immagine di ateneo: è questo uno degli elementi che caratterizzano i grandi atenei del mondo. Uno studente per scegliere un ateneo piuttosto di un altro guarda la qualità della didattica e della ricerca, ma anche la qualità dei servizi che riceve. Si deve perciò agire su molti canali: una buona comunicazione istituzionale, un grande impegno nei servizi e una grande qualità per quella che definiamo la politica estera dell’ateneo. Si tratta del collegamento con le nostre naturali controparti scientifiche internazionali e con i territori da scoprire più accuratamente. Interi ambiti come quelli dei Brics vanno esplorati, potenziando i rapporti con altri Paesi di questo gruppo. Con l’Europa i rapporti devono rimanere strettissimi, così come per il bacino del Mediterraneo e il Sudamerica, nostri tradizionali bacini d’intervento. L’immagine dell’università di Padova – grandissima all’origine per storia e valori – deve essere accompagnata da strumenti moderni di comunicazione e da un assetto moderno di tutta l’attività scientifica, didattica e di collegamento da offrire ai nostri partner.

Rizzuto: Il flusso delle informazioni è anche uno strumento di comunicazione all’esterno, ma è uno strumento di efficienza al nostro interno: infatti avere sistemi informativi e flussi rapidi di informazione, direttamente accessibili e con ricchezza d’informazioni, è un elemento di valorizzazione dell’università e va affrontato rapidamente. Occorre però separare questo tema dal problema della comunicazione internazionale, dalla possibilità di recepire all’esterno il valore del nostro ateneo. Si tratta di un sistema complesso: è vero che il passaparola rappresenta un volano o, viceversa, uno strumento di abbattimento della nostra immagine all’estero. Infatti arrivare in Italia e avere grosse difficoltà di inserimento per le procedure di immigrazione e per le difficoltà a trovare casa è un segnale estremamente negativo, come ha comunicato una dottoranda indiana all’editor di una prestigiosa rivista, Molecular medicine. D’altra parte, noi dobbiamo saper parlare entrando nelle grandi reti di comunicazione con una strategia per comunicare con i paesi di eccellenza in Europa e Nord America e con i Paesi che riteniamo strategici, dal Sudamerica all’Estremo Oriente, ai Paesi della cooperazione. Infine dobbiamo inserirci nei grandi progetti europei, con progetti che siano riconosciuti e permettano ai nostri ricercatori di essere efficaci nella competizione internazionale, e con questo far conoscere ancor più l’attività dell’università. 

Università e cultura: la volontà di valorizzare i musei e il patrimonio culturale dell'ateneo è stata più volte dichiarata nei vostri interventi. Avete già in mente un modello di riferimento per ampliare la loro fruizione da parte del pubblico? 

Rizzuto: i due elementi cruciali per la valorizzazione del nostro patrimonio museale sono organizzazione e comunicazione. Organizzazione significa aprirli e dare risorse a chi lavora nei musei, perché questi siano non solo accessibili, ma anche centri di attività scientifica. Il museo come strumento di scienza, insomma. Facendo questo e con risorse dedicate al sistema museale, possiamo anche costruire una rete di musei, trasferendo questo risultato al territorio come strumento di valorizzazione. Immaginate si possa avere un biglietto per i musei di Padova con cui entrare al Bo, al Teatro anatomico, al Giardino della biodiversità, al museo dei geografi, a quello della medicina… Tutto questo rappresenta uno strumento di conoscenza della nostra università, ma anche un’attrazione per la nostra città.

Tenti: dobbiamo puntare a una integrazione con il sistema museale della città, sfruttando la loro vicinanza. Sono musei stupendi, che meritano una visita per i pezzi unici che si trovano, penso ad esempio al museo della Fisica o a quello di Astronomia. Ma non sono solo punti di attrazione di natura turistica, perché hanno anche una attività scientifica e didattica: insomma hanno una carta in più, che dobbiamo giocare. Amo citare il caso del Muse, a Trento, con la sua architettura splendida firmata da Renzo Piano, ma al cui interno non c’è nulla di particolare. Cosa lo rende allora unico? Il Muse ricorre a un trucco formidabile. Nelle sue sale infatti ci sono ragazzi laureati esattamente nelle discipline collegate al contenuto dell’ambiente che si visita: sono questi ragazzi, con le loro competenze, ad attrarre e trascinare i visitatori. Noi possiamo mettere in campo lo straordinario entusiasmo e la competenza in possesso dei giovani per trasformarli in scienza viva, nella possibilità concreta di toccare, vedere, capire le meravigliose soluzioni elaborate nei secoli nella nostra università e ancora oggi strumento moderno di studio. Mettendo assieme le capacità dell’università con il valore intrinseco dei nostri poli museali possiamo ottenere una realtà di straordinario interesse.

A una settimana dal voto delle vostre squadre di governo conosciamo due nomi, i professori Dalla Fontana e Zattoni. Avete anche detto di non sentirvi vincolato al gruppo che vi ha sostenuto nel programma elettorale. Ma qual è il profilo del candidato ideale ai ruoli di prorettore?

Tenti: i profili ideali sono almeno pari al valore di quelli del gruppo di persone che hanno deciso di esporre la propria immagine al servizio del nostro progetto. Sono persone che hanno grande conoscenza dell’ateneo, se parliamo della squadra senior, e piene di entusiasmo e grande trasversalità di conoscenze, se guardiamo a quella junior. Questa è la tipologia di persone di cui vorrei far uso. Ribadisco che nessuno di loro si aspetta nulla da questa impresa e non c’è alcun impegno particolare, a parte quello menzionato del professor Zattoni (indicato come prorettore a medicina, Ndr), a coprire questi ruoli. La struttura di governo architettata dà l’idea delle competenze da mettere in gioco. Avremo, oltre a rettore e vicario, tre prorettori per le attività istituzionali dell’ateneo – didattica, ricerca e Terza missione – due prorettori, al personale e al patrimonio, asset fondamentali dell’ateneo. Ci saranno poi, oltre a quello di medicina i due prorettori al bilancio e alla programmazione e alle relazioni.

Rizzuto: i miei prorettori dovranno essere giovani. Voglio facce nuove, idee nuove e una visione innovativa. Chi si è impegnato nel passato ha dato il meglio di sé ma il ricambio – portare nuove idee, nuove passioni, nuove visioni – è sempre uno strumento di arricchimento. Un prorettore deve poi avere una  specifica competenza nel suo ambito d’azione. E fin dall’inizio ho detto che sceglierò tra le 2.000 persone dell’ateneo, tra chi si è impegnato a mio favore, ma anche tra quanti si sono impegnati a favore del professor Tenti, o tra chi è stato zitto e non si è impegnato affatto in campagna elettorale. I prorettori infatti sono dell’ateneo, non del rettore. Il terzo requisito è l’entusiasmo: ci deve essere grande impegno. Il rettore dà diversi anni della propria vita a una nuova missione. Se è scienziato come me, per sei anni farà molta fatica a fare lo scienziato e i prorettori dovranno fare una scelta analoga, non così impegnativa, ma dovranno impegnarsi per un periodo di cambiamento e innovazione. Tutto questo in una squadra piccola, perché il numero di prorettori e delegati deve essere limitato come accade in buona parte degli atenei d’Italia. Questo garantisce la collegialità, la possibilità di discutere ogni singolo atto di governo e dà anche una identificazione chiara dei ruoli. Le funzioni principali saranno infatti accentrate in persone chiaramente identificabili, senza possibili sovrapposizioni di ruoli tra prorettori diversi. 

Carlo Calore

Mattia Sopelsa

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