UNIVERSITÀ E SCUOLA

Argentina, l’università gratuita non funziona

Non sempre università ad accesso libero o esenti da tasse è sinonimo di ottime performance in termini di laureati. Non si parla dell’Italia, dove comunque il dibattito tra un’ateneo aperto a tutti o “bloccato” da test di ingresso riaffiora ogni anno nel periodo delle immatricolazioni, ma dell’Argentina.

Il Paese infatti soffre di un problema che ha ormai raggiunto livelli preoccupanti: quello del tasso di abbandono universitario, tra i più alti al mondo. Ogni 100 studenti, solo 27 concludono gli studi con la laurea. Se si rapporta con le altre nazioni del Sudamerica, la situazione dell’Argentina è grave: in Brasile il tasso di abbandono è del 50%, del 41% in Cile, del 39% in Messico. Niente a che vedere con il 73% dell’Argentina. Secondo uno studio pubblicato recentemente dal centro studi per l’educazione in Argentina (Cea) dell’università di Belgrano (Buenos Aires), la situazione è molto più critica proprio per gli atenei pubblici, dove solo 23 studenti su 100 riescono a laurearsi. I dati risalgono al 2010 e sono gli ultimi a disposizione. 

Sono tre le ragioni che conducono al quadro universitario argentino. Se da una parte è vero che un’università priva di tasse e ad accesso libero permette a chiunque di iscriversi, è anche vero che in Argentina la maggior parte degli studenti è costretta comunque a lavorare per mantenersi durante gli studi. Va ricordato che il Paese soffre da diversi anni di una condizione economica altalenante e oggi rischia di precipitare nuovamente verso un nuovo crack finanziario, dopo quello del 2001. È facile comprendere, allora, come nella sola università di Buenos Aires (Uba), la più grande di tutta l’Argentina, il 63% degli studenti (oltre 300.000) abbia un lavoro e come la metà di loro sia impegnata tra le 36 e le 45 ore settimanali. Troppo per potersi permettere anche di studiare e la soluzione è dietro l’angolo: abbandonare l’università anzitempo e proseguire con la propria occupazione. Meglio avere un lavoro sicuro ora che rischiare di essere disoccupati ma con una laurea sotto braccio. 

Oltre ai problemi lavorativi, la tanto decantata università aperta argentina, “conquista degli studenti”, potrebbe anche servire a mascherare agli occhi dell’opinione pubblica anni e anni di abbandono del sistema scolastico nazionale da parte delle autorità. D’altra parte, i risultati del test Pisa (il programme for international student assesment dell’Ocse) sugli studenti 15enni dimostrano come i giovani argentini negli ultimi dieci anni siano finiti nel fondo della classifica, sotto a Cile, Uruguay, Colombia e Brasile, contendendosi il penultimo posto con il Peru. Un risultato certamente non positivo ma che dà una lettura chiara di una scuola in cui non esistono esami di fine anno con cui si certifichi il grado di preparazione degli alunni e in cui i giovani non si impegnano più di tanto, sapendo che il passaggio all’anno successivo è pressoché automatico. Per cercare di ovviare a questa mancanza di preparazione, l’ateneo di Buenos Aires aveva creato, già a partire da 30 anni fa, il Cbc (Core curriculum program): un pre-corso di un anno durante cui gli studenti erano tenuti a superare sei esami per poi accedere al corso di laurea principale a cui si erano iscritti. I dati di successo oggi sono estremamente bassi: solo il 38% dei partecipanti al Cbc riesce a superare il corso nell’arco di due semestri.  

La conseguenza si esprime in un graduale e continuo abbandono delle scuole pubbliche e in parte delle stesse università pubbliche. Attualmente circa il 20% degli studenti è iscritto in atenei privati, con 29 laureati ogni 100 iscritti. 

Pare insomma che il diritto allo studio illimitato non sempre paghi in termini poi di percentuale di studenti arrivati alla fine del percorso di studi. Non solo, la debolezza di un sistema scolastico pubblico non in grado di formare al meglio gli studenti ha generato un altro fenomeno: ha fatto sì che negli ultimi anni il tasso di iscrizione alle scuole superiori private aumentasse, mentre gli studenti iscritti all’università provengono solo in minima parte da aree urbane economicamente svantaggiate. 

Mattia Sopelsa

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