SOCIETÀ

Le Falkland, l'Argentina e una disputa non solo territoriale

Ci risiamo: l’Argentina, o meglio, il suo eccentrico presidente Javier Milei, torna ad avanzare pretese sulle isole Falkland, che già nel 1982 furono teatro di uno scriteriato tentativo di annessione da parte dell’allora capo della giunta militare, il generale Leopoldo Galtieri. Tentativo che fu represso in poco più di due mesi di guerra (al prezzo di oltre 900 vittime: l’episodio più eclatante fu l’affondamento, da parte di un sottomarino britannico, dell’incrociatore della marina argentina, il “General Belgrano”, salpato da Ushuaia, Terra del Fuoco, con oltre 320 marinai a bordo) soprattutto per l’intervento in forze della Royal Navy britannica, spedita lì a rimettere le cose in ordine dalla lady di ferro, Margaret Thatcher. «L’Argentina ha una sovranità non negoziabile sulle Falkland», continua a ripetere da mesi Milei, dopo aver sbandierato l’argomento anche durante la sua campagna elettorale. 

Gli ha fatto eco, ampliando il concetto, la sua ministra degli Esteri, Diana Mondino: «Riaffermeremo i nostri diritti di sovranità legittimi e irrinunciabili sulle Isole Malvinas (così gli argentini chiamano le Falkland), sulla Georgia del Sud, sulle Isole Sandwich Meridionali e sulle loro aree marittime adiacenti, che il Regno Unito ha invaso con la forza oltre 190 anni fa». Non che Milei voglia dichiarare di nuovo guerra al Regno Unito: la lezione dell’82 brucia ancora, e comunque non ne avrebbe la forza né militare, tantomeno economica. Vuole invece «avviare un dialogo», come ha ricordato il 3 gennaio scorso, in occasione del 191° anniversario “dell’occupazione forzata delle Malvinas”. E per incoraggiare «la ripresa di negoziati bilaterali con il Regno Unito per trovare una soluzione a questa disputa sulla sovranità, in conformità con le disposizioni delle pertinenti risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite». «Sono convinto - ha ripetuto il presidente dell’Argentina - che la via diplomatica sia l’unica possibile». E delinea, Milei, un percorso ben definito: «Vogliamo arrivare a una soluzione fattibile per quanto riguarda le isole Malvinas. L’Inghilterra ha già avuto un conflitto simile a questo: è stato con la Cina e il caso di Hong Kong. Proponiamo una soluzione simile, in base alla quale l’Inghilterra ci restituisce le isole attraverso i canali diplomatici».

Il referendum del 2013 e il no di Londra

La contesa sul dominio di quell’arcipelago, che si trova nel Sud dell’Oceano Atlantico, vicino (circa 300 miglia) alla punta meridionale dell’Argentina, di fronte alla Patagonia, è questione antica, controversa e senza una chiara soluzione. Quelle terre, completamente disabitate fino al 1765, furono rivendicate per la prima volta dagli inglesi che stabilirono una guarnigione a Port Egmont. Poi anche Francia e Spagna, potenze coloniali dell’epoca, avanzarono pretese. L'Argentina sostiene che le Malvinas sono loro perché “ereditate” dalla corona spagnola nel 1800, oltre che per evidente vicinanza alla loro costa. Il Regno Unito fa valere l’anzianità del governo delle isole, sostenendo di averle abitate e amministrate ininterrottamente dal 1833. La questione finì, dopo la seconda guerra mondiale, all’attenzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che nel 1965 sostanzialmente se ne lavò le mani, approvando una risoluzione che invitava la Gran Bretagna e l’Argentina a “tenere discussioni per trovare una soluzione pacifica alla disputa”. Discussioni, molto lunghe e per nulla fruttuose, che erano ancora in corso nel 1982, quando il contingente militare argentino invase le isole. Quindi non esiste una formale assegnazione della sovranità sull’arcipelago, oggi abitato da oltre tremila persone, la maggior parte di origine britannica. C’è da dire inoltre che sulle isole nel 2013 si è tenuto un referendum con un unico quesito: “Volete che le Isole Falkland mantengano il loro attuale status politico di territorio d’oltremare del Regno Unito”? L’affluenza fu di oltre il 90%. E il risultato inequivocabile: 1.513 voti a favore, appena 3 i contrari (99,8% di sì). Un voto che ancora oggi rafforza la posizione e le convinzioni del Regno Unito.

Difatti la risposta che arriva da Londra non lascia margine a trattative di alcun tipo. Il ministro degli esteri britannico, David Cameron, arrivato lunedì scorso in visita proprio sull’arcipelago (prima tappa di un viaggio che l’ha portato anche in Brasile, al G20, e poi in Paraguay e a New York) è stato netto: «Vorrei essere assolutamente chiaro: per quanto ci riguarda, le Isole Falkland sono assolutamente le benvenute a far parte della famiglia del Regno Unito finché lo vorranno. E spero che lo siano per molto tempo, anche per sempre», ha scandito Cameron durante una cerimonia a Port Stanley, in memoria delle vittime della guerra dell’82 (649 soldati argentini, 255 britannici e 3 civili abitanti dell’isola). «E noi le sosterremo e le proteggeremo per tutto il tempo che vorranno. Ovviamente vogliamo avere buoni rapporti con Buenos Aires e con il governo argentino, ma ciò non andrà mai a scapito dei desideri degli abitanti delle Isole Falkland che, a nostro avviso, vengono assolutamente al primo posto». Caustica e sul filo dell’ironia la risposta della ministra degli esteri argentina, Diana Mondino: «Apprezziamo il gesto del cancelliere britannico, David Cameron, di includere l’Argentina nella sua visita nella regione. Saremmo lieti di ricevervi, la prossima volta, anche a Buenos Aires». Meno sottile la risposta del governatore della Terra del Fuoco, Gustavo Melella: «La presenza di David Cameron nelle nostre isole Malvinas costituisce una nuova provocazione britannica che cerca di minare i nostri legittimi diritti sovrani sui nostri territori e sostenere il colonialismo nel 21° secolo. Finché persisterà l’usurpazione britannica del nostro territorio e il Regno Unito continuerà a rifiutarsi di riprendere i negoziati che la comunità internazionale stabilisce per restituirci ciò che per storia e diritto ci appartiene, non ci fermeremo nella nostra lotta. Nessun rappresentante coloniale di uno Stato che minaccia la nostra integrità territoriale, infangando la memoria e l’eterno sacrificio dei nostri Eroi delle Malvinas, sarà il benvenuto nella nostra provincia». Non siamo ancora allo strappo diplomatico, ma poco, pochissimo ci manca.

Petrolio e pesca: ma a Buenos Aires la crisi è sempre più acuta

Pretese e rivendicazioni, nazionalismi e minacce: ma per quale motivo Regno Unito e Argentina continuano ad accapigliarsi con tanto livore per il possesso di queste terre remote? Nel giugno 2022 il Guardian ha pubblicato il contenuto di alcuni documenti riservati, ora desecretati, dai quale emerge l’interesse del governo britannico a proseguire l’esplorazione delle acque attorno all’arcipelago in cerca di petrolio. «Non vorremmo dare credito all’accusa che la nostra operazione nelle Isole Falkland sia stata motivata dalla convinzione che ci fosse petrolio da trovare in quelle acque», scriveva ad esempio nel 1991 l’ex cancelliere Norman Lamont all’allora ministro degli Esteri, Douglas Hurd. «Ma non ho dubbi che nel caso di una grande scoperta petrolifera, le entrate fiscali dovrebbero andare all’erario britannico. Mi sembra equo, visti i notevoli sacrifici finanziari e di altro tipo che il Regno Unito ha fatto per garantire la libertà delle Isole Falkland». E in effetti in quei fondali il petrolio è stato trovato (e nel progetto di estrazione ora è coinvolta anche una compagnia israeliana). Poi il turismo, l’esportazione di carne e soprattutto la pesca (il “pezzo pregiato” è il calamaro: si stima che il 20% dei calamari consumati in Europa provenga da quelle acque), che almeno finora è stato il vero motore economico dell’isola, contribuendo per oltre il 60% alla formazione del Pil (che negli ultimi quarant’anni è cresciuto del 500%). Anche se il Regno Unito deve difendersi dall’accusa di aver concesso licenze di pesca “senza controllo” a pescherecci spagnoli e cinesi. Uno “sfruttamento delle acque” che l’Argentina, a dire il vero, denuncia da anni, definendola “pirateria”.

Argentina che si trova dunque a giocare una partita delicata, tra rivendicazioni più o meno legittime, ma senza “assi” in mano: non storici (l’Onu l’ha già detto: sulle Falkland vedetevela tra voi), non diplomatici (il Regno Unito, che si fa scudo dietro al mantra “decidano gli isolani”, non ha alcuna intenzione di cedere sovranità gratuitamente: basti pensare che negli ultimi 40 anni ha stanziato 2,4 miliardi di sterline per missioni di “sorveglianza” attorno all’arcipelago), non militari (possibilità di successo per Buenos Aires pari a zero). E tantomeno economici, visto che la situazione in Argentina non è affatto migliorata dall’insediamento alla Casa Rosada, lo scorso dicembre, di Javier Milei (ma due mesi sono oggettivamente pochi per valutare un’azione politica) che come prima mossa ha svalutato la moneta locale, il peso, del 51%, in previsione di un’annunciata e azzardata “dollarizzazione” piena d’incognite. L’inflazione è schizzata a livelli ancor più alti dei mesi passati (+20,6% a gennaio, +254% su base annua). Mentre continua a peggiorare l’indice di povertà, che ormai tocca 27 milioni di persone, pari al 57,4% della popolazione, stando a quanto rivela un rapportodell’Osservatorio sociale dell’UCA (l’Università Cattolica Argentina). È il tasso più alto registrato dal 2004 (e sono 7 milioni gli argentini in stato di indigenza, vale a dire in “povertà assoluta”). Responsabili di questo peggioramento sarebbero le drastiche misure decise nei mesi scorsi dal governo, tra le quali l’aumento di tariffe di luce e gas, dei trasporti, dei generi alimentari. Il governo argentino, per tentare di arginare l’emergenza, ha fissato un aumento del 30% del salario minimo. Il presidente Milei scarica le responsabilità della situazione attuale sulle politiche dei governi che l’hanno preceduto, sulla “casta”, come ama ripetere. E annuncia che non cambierà strada: «Non siamo venuti per fare il gioco mediocre della politica, siamo venuti per cambiare il Paese». Ma l’emergenza sociale è realmente drammatica e di difficilissima soluzione, almeno in tempi brevi. Come scrive El Pais: «La crisi alimentare ha portato all’ordine del giorno a Buenos Aires scene che fino a pochi mesi fa erano sporadiche, come vedere persone - a volte bambini – all’interno di contenitori della spazzatura in cerca di cibo o materiali da vendere. C'è stato anche un aumento del numero di persone che vanno di casa in casa a chiedere aiuto e si rivolgono alle mense per i poveri gratuite perché non possono permettersi di comprare cibo». E di fronte a un’emergenza di questa portata, con questi numeri, con queste incognite, anche la questione della sovranità delle Malvinas fatalmente scivolerà nelle retrovie delle priorità.

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