SOCIETÀ
Turchia, proteste e scontri (anche politici) dopo l'arresto del sindaco di Istanbul

Manifestanti protestano contro l'arresto di Imamoglu davanti alla polizia schierata. Foto: Reuters
Che il sindaco di un’importante città finisca in carcere, peraltro nel corso del suo mandato, è già di per sé una cosa grave. Ma che questo accada alla vigilia della sua proclamazione ufficiale a candidato delle prossime elezioni presidenziali legittima il corposo sospetto che altri siano i motivi, che dietro quelle manette possa nascondersi una strategia, un calcolo politico. Ekrem Imamoglu, sindaco di Istanbul, è l’unico ad aver già sconfitto due volte (nelle elezioni comunali del 2019 e del 2024) il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) del presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, che in Turchia spadroneggia a suo piacere ormai dal lontano 2003. Ebbene: Imamoglu, leader del laico Partito Repubblicano del Popolo (CHP), è stato formalmente accusato dal procuratore capo di Istanbul in due distinte inchieste per i reati di corruzione, frode, acquisizione illegale di dati personali e manipolazione delle gare d’appalto, oltre che per favoreggiamento verso il PKK, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, che per l’attuale governo nazionale è un’organizzazione di terroristi. Accuse tutt’altro che circostanziate, ma tanto è bastato alla polizia turca per portare in carcere il grande rivale del “sultano” Erdogan. Domenica scorsa il tribunale di Istanbul ha respinto l’arresto del sindaco per terrorismo, ma ha confermato la sua detenzione in merito all’indagine finanziaria, “per aver fondato e guidato un’organizzazione criminale, accettato tangenti, cattiva condotta in ufficio, registrazione illegale di dati personali e manipolazione delle offerte", ha stabilito il tribunale. E sebbene vi sia un forte sospetto di assistenza a un’organizzazione terroristica armata, è stato ritenuto non necessario prendere una decisione su questa particolare accusa in questa fase, poiché è già stato posto in custodia cautelare per reati finanziari”, ha poi aggiunto la corte. Il 20 marzo scorso le autorità avevano sequestrato una società di costruzioni di proprietà di Imamoglu, affidandone il controllo a un tribunale.
E per non correre rischi, nei giorni precedenti all’arresto, l’Università di Istanbul gli aveva anche revocato la laurea in management, appellandosi a vaghe irregolarità che l’attuale sindaco avrebbe commesso nel 1990. E in Turchia, senza laurea, non ci si può candidare alla presidenza. Nel 2022 avevano già provato a far fuori, politicamente, Imamoglu: un tribunale l’aveva condannato a due anni e mezzo di carcere per aver “insultato i membri del Supremo Consiglio Elettorale” che avevano annullato la sua elezione, costringendo gli elettori a un nuovo voto (vinto anche quello, mentre il verdetto-farsa è ancora sospeso, in attesa della pronuncia della Corte d’Appello). Ma Imamoglu non è l’unico oppositore finito in carcere: nei mesi scorsi la stessa sorte, e con le stesse accuse, chiamiamole così, è toccata al sindaco di Beşiktaş, Rıza Akpolat, al sindaco di Esenyurt, Ahmet Özer, e al sindaco di Ovacık, Mustafa Sarıgül. Complessivamente, citano fonti locali, nella stessa operazione che ha portato alla cattura di Imamoglu, la polizia ha arrestato altre 105 persone, tra le quali politici, giornalisti, dipendenti del Comune e uomini d’affari. Una sfacciata operazione di repulisti. Che ha già avuto, e continuerà ad avere, gravi conseguenze.
Il gioco d’azzardo di Erdogan
Quello messo in atto da Erdogan è un calcolo facilmente leggibile: meglio calpestare la Costituzione da presidente che da candidato sconfitto. Anche a costo di sfidare la rabbia popolare, le gigantesche manifestazioni di protesta, com’è puntualmente avvenuto. Anche sapendo che l’arresto, così palesemente deciso “a tavolino”, avrebbe aumentato la popolarità di Imamoglu e il consenso attorno a lui. Proprio nel tentativo di porre un argine alle manifestazioni, il governatore di Istanbul (un funzionario statale nominato dal governo che sovrintende l’attuazione della legislazione governativa: dunque un uomo di Erdogan) aveva stabilito la chiusura delle principali linee della metropolitana e delle strade nel centro di Istanbul, con l’esplicito divieto di partecipare a qualsiasi genere di manifestazione, oltre a disporre una drastica limitazione di Internet. Ma l’intimidazione non è bastata a evitare che la vicenda assumesse eco e rilevanza a livello internazionale. Il Partito Repubblicano del Popolo ha organizzato nel fine settimana manifestazioni in 14 città turche, con l’obiettivo di “proteggere la volontà del popolo e sostenere la democrazia”: a Istanbul, che è naturalmente l’epicentro delle proteste, e nella capitale Ankara, ma anche a Smirne, a Izmir, ad Antalya, a Mersin, a Bursa. Anche il presidente del CHP, Özgür Özel, ha parlato giovedì scorso a Istanbul, di fronte a un mare di manifestanti: «Vedi Erdogan? Istanbul ti sta parlando. Questo è un tentativo di colpo di stato. Siamo pronti per qualsiasi male possiate fare. Perché è chiaro che la questione non è una lotta politica, ma una questione di esistenza o non esistenza per il Paese». La risposta di Erdogan non si è fatta attendere: «La strada presa dal presidente del CHP è un vicolo cieco. Vediamo che un'operazione anti-corruzione a Istanbul viene usata come scusa per fomentare disordini nelle nostre strade. Voglio che si sappia che non permetteremo a un manipolo di opportunisti miscredenti di portare disordini in Turchia, attaccando la nostra polizia, minacciando i nostri giudici e pubblici ministeri che stanno facendo il loro dovere, solo per proteggere i loro piani di saccheggio. Come non ci siamo ma arresi al terrorismo di strada, non soccomberemo di fronte al vandalismo».
La rabbia e la paura
La risposta della società civile turca è stata vigorosa: centinaia di migliaia di persone, e di ogni età, bambini compresi, nei giorni scorsi sono scesi in strada nelle principali città della Turchia, nelle università, di fronte alle stazioni di polizia, all’esterno della sede del Comune di Istanbul per manifestare il proprio dissenso nei confronti delle azioni del governo e sfidando la minaccia della polizia, che ha sparato gas lacrimogeni verso la folla che innalzava a gran voce lo slogan “diritti, legge, giustizia”. «Stiamo combattendo per il nostro futuro e per quello dei nostri figli», hanno ripetuto. Manifestazioni generalmente pacifiche, ma non sono mancati scontri con la polizia. Ad Ankara e Izmir, gli agenti antisommossa hanno schierato cannoni ad acqua, usandoli, per intimidire i dimostranti. Soltanto lo scorso venerdì, stando ai dati forniti dalla polizia turca, 343 persone sono state arrestate per aver contravvenuto al divieto di partecipare a pubbliche manifestazioni. Lo schema è sempre lo stesso: la continua erosione della democrazia, lo scivolamento imposto da Erdogan verso un governo autoritario del paese, spinge la popolazione a reagire in piazza: e la polizia ha mano libera per contenere il dissenso, nei modi che ritiene più efficaci. Com’era già accaduto nel maggio del 2013, con le proteste di Gezi Park (22 morti, più di ottomila feriti), passate alla storia per la brutalità della repressione da parte delle forze di polizia. Un’imponente manifestazione della comunità turca, per chiedere la liberazione di Imamoglu, si è svolta domenica a Berlino.
Ma come cresce la rabbia aumenta anche la paura. Perché i diritti civili, come quelli umani, da queste parti sono spesso un optional, come ha ricordato pochi giorni fa Dinushika Dissanayake, vicedirettrice regionale di Amnesty International per l’Europa. Protestare è un rischio, alzare la voce è un rischio. Ed è perciò che molti manifestanti in questi giorni indossano maschere di cartone, mentre sfilano e gridano slogan contro Erdogan e il suo governo: per proteggersi, per continuare ad avere una voce. «Se provi a dire qualcosa, a esprimere il tuo dissenso, ne paghi le conseguenze», ci racconta un ragazzo che fa parte di una Ong molto attiva in Turchia, che ha deciso di parlare sotto copertura dell’anonimato proprio per evitare pericolose ritorsioni. «In questo momento tutti i social media, la televisione, i giornali, tutto è sotto il controllo statale. Se ti opponi al regime di Erdogan, loro inizieranno a scavare nel tuo passato, e magari troveranno qualcosa di stupido che hai fatto quando avevi 20 anni e lo distorceranno per arrestarti, accusandoti di terrorismo». Ed è proprio quello che sta accadendo nelle ultime ore. Il ministro dell’Interno turco, Ali Yerlikaya, ha annunciato che dopo l’arresto di Imamoglu sono stati scoperti “un totale di 326 account che incitano all’odio, di cui 72 all’estero”. E che “un’azione coordinata tra le autorità informatiche e di sicurezza ha portato all’arresto di 54 sospetti legati agli account dei social media”. La piattaforma di social media X, di proprietà di Elon Musk, si è affrettata a sospendere diversi account appartenenti a figure dell’opposizione in Turchia. Yusuf Can, coordinatore e analista del Programma per il Medio Oriente del centro-studi americano Wilson Center, interpellato dal quotidiano Politico, ritiene che la maggior parte degli account sospesi erano «account di attivisti associati all’Università, che fondamentalmente condividevano informazioni sulle proteste, luoghi in cui gli studenti potevano andare».
Le tensioni (anche sotto un profilo finanziario: i titoli in borsa sono crollati) sono destinate ad aumentare. Perché Erdogan, con questa mossa così plateale, ha dichiarato che è pronto a qualsiasi tipo di scontro pur di mantenere il potere. Anche a costo di lacerare ancor più il paese, sempre più polarizzato tra un governo autoritario e un’opposizione che non vuole arretrare di un solo passo, nonostante le repressioni. «Le persone sono spaventate, ma lottano ugualmente perché non hanno davvero più nulla perdere», ci spiega ancora il giovane attivista della ong. «Credono che questa sarà l’ultima chance a loro disposizione per esprimersi, per difendere la democrazia e la giustizia. Se anche questa occasione andrà sprecata, allora tutto sarà perduto».
Ma l’opposizione è ancora in piedi: il Partito Repubblicano del Popolo (CHP) ha deciso comunque di candidareEkrem Imamoglu alle elezioni presidenziali, previste nel 2028. Sembra una distanza enorme, ma non è così: Erdogan non potrebbe ricandidarsi perché ha raggiunto i limiti che la legge turca impone, ma i suoi alleati hanno già chiesto che la costituzione venga modificata in modo che possa candidarsi ancora una volta. Altrimenti, il Parlamento (controllato dall’AKP) potrebbe indire un voto anticipato, che permetterebbe al “sultano” di partecipare di nuovo alle elezioni presidenziali. Il CHP ha inoltre convocato un congresso straordinario del partito per il prossimo 6 aprile, proprio sulla scia di quanto scritto dallo stesso Imamoglu, su X, pochi istanti prima della sua cattura: «Non si tratta solo di me o del mio partito», aveva scritto il sindaco di Istanbul. «Questa è una questione che riguarda tutta la Turchia. E l’unica risposta a questa ingiustizia è alzare la voce e dare il nostro voto». Domenica 23 marzo, sempre sul suo profilo X, è apparso questo messaggio: «Mia cara nazione, non essere mai triste, non perdere mai la speranza. Noi, mano nella mano, sradicheremo questo colpo, questa macchia nera sulla nostra democrazia. Sono in piedi, non mi piegherò».