SOCIETÀ

Elogio (menzognero) del giovane flessibile

“Un giovane su due vuole un lavoro all’estero”; “Oltre un quinto pensa di mettersi in proprio”: così un grande quotidiano riassumeva, ieri, la ricerca della fondazione Istud sulle aspirazioni dei ragazzi italiani che viene presentata oggi presso l’Assolombarda. Un trionfo della mobilità in Europa, un elogio incondizionato dello spirito imprenditoriale.

A guardare i dati presentati nell’articolo, però, questo entusiasmo della “generazione Erasmus” sbiadisce alquanto. Prima di tutto le cifre: il sondaggio rivelerebbe che il 46% dei giovani “vorrebbe” andare all’estero. Un risultato che potrebbe essere però letto anche in senso opposto: il 46% dei giovani, confrontato a una disoccupazione di massa (35%), si sente costretto ad andare all’estero. Sappiamo che le partenze verso la Germania, per esempio, sono fortemente aumentate negli ultimi due anni, un dato che appare solo parzialmente nelle statistiche.

Si sarebbe anche potuto enfatizzare il fatto che il 54% dei giovani, nonostante la crisi, vorrebbe lavorare nelle vicinanze di dove vive (38%) o, quanto meno, in Italia (un altro 16%). Quindi la maggioranza degli intervistati, nonostante la crisi, non vuole rinunciare alle proprie radici, che spesso significano, più prosaicamente, la possibilità di vivere con i genitori, visto che una casa indipendente, per chi ha redditi modesti e precari, rimane un sogno impossibile. Il trionfalismo del titolo: “La Generazione Erasmus non è più bambocciona” appare almeno fuori luogo.

Nella presentazione della ricerca si enfatizza anche il carattere “intraprendente”  dei giovani italiani: uno su cinque, si dice,  “pensa di mettersi in proprio”. La realtà dei numeri è più modesta: il 7,7% degli intervistati vorrebbe avviare una propria attività imprenditoriale. Chi vuole farlo è quindi in fondo alla classifica delle preferenze dei giovani italiani, alla pari con chi vorrebbe lavorare in una piccola impresa (7,6%).

È aggiungendo a quel 7,7% un 12,8% che risponde di voler intraprendere una libera professione che si arriva al 20,5%, cioè un quinto del campione. Ma la libera professione è praticamente una scelta obbligata per i molti laureati di discipline come giurisprudenza (che in passato potevano pensare a un impiego pubblico, oggi precluso dai blocchi delle assunzioni nello Stato) o ingegneria e architettura, che un tempo potevano sperare in un lavoro stabile presso qualche grosso studio e che oggi vedono di fronte a loro soltanto la prospettiva di lavorare in proprio, scontando anni di incertezza prima di raggiungere una certa stabilità di reddito.

E il resto del campione, l’80% degli intervistati, cosa vuole fare? Metà vuole lavorare in una grande impresa, sperando di essere maggiormente protetto dagli alti e bassi del mercato del lavoro: una maggioranza relativa  (32%) spera di trovare posto in una multinazionale, un altro 18% in una grande impresa italiana. Solo l’11% vuole un posto nel settore pubblico e il 9% nel terzo settore (cooperative, no profit). Inutile discutere se siano dati positivi negativi: i numeri affermano questo e “abbellirli” per renderli più in sintonia con la propaganda non cambia la realtà.

 

Fabrizio Tonello

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