UNIVERSITÀ E SCUOLA

Fuoricorso Usa: sono più che in Italia e difficili da recuperare

La polemica sugli studenti fuori corso e in genere sui ritardi nell'ingresso nel mondo del lavoro in Italia ha una lunga tradizione, dall'ormai lontano "bamboccioni" di Padoa-Schioppa alle discussioni infuocate scatenate due anni fa dall'allora sottosegretario Michel Martone con il suo giudizio molto sopra le righe su chi si laurea dopo i 28 anni, all'indicarli come principale problema del nostro sistema universitario da parte del ministro Profumo nello stesso periodo. Andando ai dati, hanno avuto recentemente risalto le classiche sulle università con meno (Politecnico di Milano, 28,4% e IUAV, Venezia, 28,7%) e con più (Potenza e L'Aquila, 53%) studenti in ritardo, pubblicate dall'Anvur nel rapporto 2013. E il numero complessivo, benché ingente – secondo le rilevazioni di AlmaLaurea Italia sono circa 700.000 gli studenti fuori corso – non sembra in sé giustificare tanto allarme, al contrario del pesante calo delle immatricolazioni verificatosi dopo il 2003. In Italia si laureano infatti in corso il 40% degli studenti e il 45% delle studentesse, una percentuale per nulla così bassa nel panorama europeo, e concludono gli studi oltre i quattro anni dopo la durata legale soltanto il 13% di loro, un numero dimezzato rispetto al 2000 e che rappresenta il più basso mai registrato, come attesta sempre AlmaLaurea con il rapporto 2014, con un progressivo e costante miglioramento. 

Se nel nostro paese questo fenomeno è, perlomeno, ben conosciuto, negli Stati Uniti, dove è altrettanto diffuso, è però assai meno discusso. Solo circa il 39% di universitari americani riesce a ottenere una laurea entro i quattro anni previsti dall’ordinamento, che è simile a quello europeo prima che si attuasse la riforma del 3+2. Più del 40% non completa gli studi nemmeno in sei anni. Tant’è che molte statistiche ufficiali, ad esempio quelle del dipartimento dell’Istruzione, sul tasso di laureati per università, usano proprio i sei anni come metro di paragone, dando per scontato un certo ritardo nella stragrande maggioranza dei casi. Eppure, i sondaggi ci dicono che l’85% di matricole americane si dichiara certo di potersi laureare in tempo. 

“È ancora diffusa la convinzione che ci vogliano quattro anni a fare l’università, ma la realtà è che molto dipende dal corso di studi prescelto e dai singoli studenti - dice Sylvia Hurtado, Direttore dell’Higher Education Research Institute dell'UCLA – Esistono tutta una serie di ragioni personali, strutturali e normativo–culturali dietro a questo fenomeno”. Ad esempio, anche negli Stati Uniti è pressoché impossibile laurearsi in ingegneria, e in altre discipline altrettanto complesse, in meno di cinque anni. Accade poi che tante matricole inizialmente iscritte a un corso di studi finiscano per cambiare una o più volte durante gli anni di università, dovendo ogni volta superare gli esami obbligatori del nuovo indirizzo e quindi mettendoci di più ad arrivare alla laurea. Si stima che tra il 50% e il 70% degli iscritti modifichino il proprio corso di laurea almeno una volta, con una maggioranza che finisce per ricominciare da capo, o quasi, almeno tre volte. Infine, capita sempre più di frequente che gli studenti passino un semestre o un anno all’estero, o intraprendano altre simili esperienze extra-curriculari, che generalmente contribuiscono a una ulteriore estensione del loro soggiorno all’università. 

L’aspetto più problematico di questo fenomeno, però, è ancora un altro. Il sistema accademico americano non pare oggi in grado di fare fronte alla sempre crescente domanda di un’istruzione universitaria anche da parte di gruppi demografici, ad esempio le minoranze etniche e i meno abbienti, che ne erano un tempo semplicemente esclusi. “Negli anni sessanta, si pensava che solo un terzo dei diplomati di scuola superiore sarebbe andato al college – dice Hurtado – Ora invece ci aggiriamo sul 70%, una popolazione tra l’altro molto più diversificata di un tempo”. Non a caso, la percentuale di studenti che finiscono fuori corso o, addirittura, lasciano prima di laurearsi, è molto più alta tra questi “ultimi arrivati”. Tra i giovani neri solo il 20,5% completa l’università in quattro anni, con il 60% che non finisce nemmeno entro sei. Tra gli ispanici, il 29% si laurea in tempo e poco più della metà in sei anni.

Questi risultati così mediocri derivano senz’altro anche dalla preparazione insufficiente che questi giovani ricevono alle superiori, giacché la qualità della scuola pubblica americana varia enormemente di zona in zona e gli istituti migliori si concentrano quasi esclusivamente nei quartieri popolati dalla classe medio-alta. “Alcune matricole scoprono di dover acquisire maggiore preparazione di base per stare al passo con gli studi universitari– dice Hurtado – Spesso questi apprendono delle proprie carenze appena prima di cominciare le lezioni, quando si trovano ad affrontare semplici test attitudinali e gli viene detto che devono seguire corsi aggiuntivi in scrittura, matematica o chimica”.  

Negli Stati Uniti, dove i college, anche quelli pubblici, sono sovvenzionati dagli stati in maniera assai meno generosa che in Italia, questo significa innanzitutto che il già estremo costo di un’istruzione universitaria diventa assolutamente insostenibile per i fuori corso, i quali, oltre a pagare le tasse d’iscrizione per più dei quattro anni di base, ritardano l’ingresso sul mercato del lavoro e quindi la possibilità di guadagnare uno stipendio. Il gruppo non-profit Complete College America ha stimato che un anno di università in più viene a costare, allo studente medio di un ateneo pubblico, 63.718 dollari tutto compreso (dati citati da TIME). 

Il problema, però, non affligge solo i fuori corso, ma il sistema tutto. “In un momento storico in cui la domanda per un titolo di laurea rimane alta, le università faticano ad ammettere un numero adeguato di nuovi studenti quando quelli già iscritti ci mettono più del previsto a laurearsi”, conclude Hurtado.

Valentina Pasquali

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