UNIVERSITÀ E SCUOLA

Inghilterra, università bloccate dallo sciopero docenti

Da oltre due settimane l’attività didattica nelle università britanniche è paralizzata dallo sciopero indetto dal personale docente. La mobilitazione è cominciata il 22 febbraio ed è destinata a durare per oltre un mese, con tempistiche diverse decise a livello di singolo ateneo. La tipologia più diffusa di mobilitazione riguarda la sospensione di lezioni ed esami per un periodo di 14 giorni continuativi. A oggi sono 66 gli atenei in cui vi sono già stati scioperi. Si tratta della terza mobilitazione generale in appena quattro anni decisa dai docenti universitari.

Il punto della discordia è sempre lo stesso: sono anni che il sindacato di docenti e ricercatori è al tavolo negoziale con governo e rappresentanti delle università per discutere una riforma dei salari. Ma la proposta delle controparti continua a includere una modifica della struttura salariale che apporterebbe pesanti penalità alle pensioni dei docenti. Secondo la UUK, l’associazione che riunisce gli atenei britannici (che, ricordiamolo, sono fortemente autonomi, quando non privatizzati), il fondo pensione dei docenti universitari britannici è in deficit di oltre 6 miliardi di sterline e l’unico modo per garantirne la sopravvivenza e l’erogazione di futuri benefici previdenziali è quello di rivedere l’intero meccanismo di prelievi e benefici. Secondo la UCU (il sindacato dei docenti), invece, il fondo pensione funziona bene e la riforma proposta dalle amministrazioni universitarie costerebbe in media 10.000 sterline annue di mancati introiti pensionistici ai docenti che andranno in pensione nei prossimi venti anni e significherebbe una pensione dimezzata rispetto a oggi per i lecturers che entrano in servizio da gennaio 2018.

Professori e ricercatori pretendono il ritiro di ogni modifica allo schema previdenziale e si battono per il mantenimento totale del sistema in essere. La minaccia è quella di far proseguire lo sciopero oltre il periodo iniziale e di far sospendere anche le sessioni estive di esami e di lauree.

Sulle motivazioni dello sciopero si intrecciano anche questioni che hanno poco a che fare con le ragioni della protesta ma che contribuiscono ad avvelenare il clima e a rendere difficile il confronto. I portavoce delle università, nelle interviste ai media nazionali, non si esimono mai dal ricordare come le mancate lezioni siano un grave danno a studenti che pagano rette anche esose per studiare e che ogni ritardo accumulato si rivelerà tale sia nel prosieguo degli studi che nella vita lavorativa, che inevitabilmente si avvierà più tardi. Da parte loro, gli scioperanti hanno iniziato la loro azione in un momento di già forte polemica con le strutture amministrative dei propri atenei a causa degli ulteriori incrementi salariali concessi ai rettori, alcuni dei quali hanno stipendi da mezzo milione di sterline annui. A questo proposito, solo pochi giorni fa, la vice-chancellor dell’università di Bath, Glynis Breakwell, ha preferito ritirarsi dai negoziati sulle pensioni, visto che, proprio mentre discuteva il taglio dei benefici ai futuri pensionati, il suo stipendio era stato portato a 468.000 sterline annue. L’attenzione mediatica è stata catturata anche dal funzionamento della USS stessa, che, secondo un’indagine della BBC, costa 124 milioni di sterline all’anno e il cui amministratore avrebbe ricevuto nel 2017 un aumento di stipendio del 17%, arrivando a guadagnare 566.000 sterline. Cifre importanti, che risultano decisamente impopolari rispetto ai numeri, ben più ridotti, oggetto delle rivendicazioni dei docenti.

Lo sciopero sembra aver trovato la solidarietà degli studenti, che secondo un sondaggio di YouGov appoggiano al 61% la mobilitazione dei docenti. E anche un limitato numero di rappresentanti delle università nella UUK sembra aver perlomeno compreso le ragioni degli scioperanti. Stuart Corbridge, rettore a Durham e Chris Day rettore della Newcastle University hanno infatti manifestato solidarietà e vicinanza ai propri docenti.

La battaglia politica (e ideologica) è però ancora lunga e molte sono le variabili in gioco. Se al momento l’opinione pubblica sembra simpatizzare con i docenti, la compattezza di questi ultimi potrebbe essere messa a repentaglio dalla durata della protesta, dato che inevitabilmente questa andrà a inficiare le finanze degli stessi scioperanti (molti dei lecturers precari vengono pagati a ore di lezione). E, nel lungo periodo, la solidarietà degli studenti potrebbe diminuire quando la cancellazione di lezioni, esami e sessioni di laurea andrà a inficiare seriamente il loro percorso accademico. Già ora più di 70.000 studenti hanno firmato una petizione dove chiedono una qualche forma di compensazione economica per i danni subiti dallo sciopero. Non è rivolta contro i docenti scioperanti, ma può essere un primo segno di uno smottamento nel fronte a sostegno della mobilitazione.

In realtà, più in generale, si tratta dell’ennesima battaglia ideologica combattuta sul “corpo” dell’università. Un conflitto cominciato nell’ormai lontano 1998, quando vennero introdotte le prime rette universitarie, modificando per sempre un sistema fino ad allora gratuito. Nel 2010, il primo governo Cameron triplicò poi la retta massima esigibile, portandola a 9.000 sterline. Anche allora ci furono scioperi e mobilitazioni, ma servirono a poco. E, ancora lo scorso anno, vi è stato un ulteriore lieve ritocco verso l’alto del limite massimo delle rette studentesche.

Da un lato c’è un corpo docente che non ha mai digerito gli ultimi vent’anni di azione governativa sugli atenei, caratterizzati anche da crescente precarizzazione della professione, aumento delle ore obbligatorie di insegnamento e tendenza all’americanizzazione del sistema, con conseguente ‘esplosione’ dei debiti studenteschi e approccio a quest’ultimi sempre più consumer-oriented. Dall’altro ci sono le università stesse, con al loro fianco i governi – prima laburisti, poi conservatori – che sono forti di un prestigio e di una attrattività sempre maggiori e insistono sulla necessità di superare un sistema retributivo che a loro parere è fatto di troppi benefit e concessioni, ormai non più sostenibili. In mezzo gli studenti, che comprendono le ragioni dello sciopero ma che devono anche pensare al loro status e ai loro interessi.

Inevitabile quindi il paragone con lo sciopero dei docenti universitari italiani, che riguarda il blocco degli scatti stipendiali. Una questione che comunque ha delle conseguenze anche sul trattamento pensionistico. La mobilitazione italiana è giunta alla seconda tornata, dopo l’astensione da un appello d’esame autunnale decisa lo scorso anno. Al primo sciopero aderirono oltre 10.000 docenti e per l’astensione prevista per la prossima sessione estiva si attendono oltre 11.000 adesioni. Tuttavia, l’effetto pratico è stato però piuttosto blando e di conseguenza anche i “danni” per studenti e atenei, che avrebbero forse conferito un elemento di ‘notiziabilità’ del tutto diverso e certamente più forte. Vi sono poi alcune differenze sostanziali con il caso britannico: la rivendicazione italiana proviene solo da docenti a tempo indeterminato che pretendono il recupero e il pagamento degli scatti stipendiali bloccati ormai da parecchi anni. Una rivendicazione legittima, ma che agli occhi delle migliaia di precari universitari è sembrata una battaglia marginale, che ha distolto energie e risorse da questioni ben più gravi come il sottofinanziamento generale, la scarsità di nuovi concorsi e la precarietà di migliaia di carriere di ricercatori. Manca poi l’elemento più decisivo di tutti, cioè quello di conflittualità con le università, che non godono di un’autonomia paragonabile a quella britannica e non possono quindi interpretare il ruolo cruciale di “cattivi”.

Marco Morini

 

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