SOCIETÀ

I migranti e la deriva del modello "mandiamoli altrove"

E siamo a due: dopo il Regno Unito ora anche l’Austria si allinea al “modello” proposto dai conservatori inglesi per risolvere “una volta per tutte” il problema dei migranti. Vale a dire la deportazione tout court dei richiedenti asilo (indipendentemente dal genere, dall’età e dalle ragioni che li hanno spinti a cercare rifugio proprio lì) in un paese terzo “sicuro”, ben lontano dai confini nazionali. Per il Regno Unito si tratterebbe del Ruanda, piccolo stato dell’Africa orientale, a seimila miglia di distanza dalle coste britanniche. Che in cambio di denaro (120 milioni di sterline, circa 140 milioni di euro), si è dichiarato pronto a ospitare gli immigrati e a vagliare in loco le domande di asilo, applicando il seguente schema: chi ha diritto all’asilo può restare, in Ruanda. Chi non ne ha, sarà espulso e rimandato nel paese d’origine. E nessuno, per nessuna ragione, potrà entrare nel Regno Unito. Il piano (chiamato “Nationality and Borders Bill”), forte dell’approvazione ricevuta dall’Alta Corte di Londra, era stato poi bloccato in extremis da un’ordinanza della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (Cedu). Ora è all’esame della Corte Suprema britannica, che dovrebbe decidere entro la metà di dicembre. Ma il progetto piace, e molto, al governo austriaco. Con il ministro dell’Interno Gerhard Karner che pochi giorni fa, approfittando di una visita a Vienna della sua omologa britannica, Suella Braverman, ha annunciato “una nuova era di cooperazione nei settori della sicurezza e della politica migratoria tra Austria e Regno Unito”. I due paesi hanno firmato un accordo per “combattere la criminalità transfrontaliera, il traffico degli esseri umani e l’abuso della pratica d’asilo”. Nella pratica, il governo austriaco si propone di imitare la regolamentazione britannica che prevede “un trasferimento rapido dei rifugiati in altri paesi”. Quali siano questi altri paesi non è ancora chiaro, ma non è da escludere che si tratti anche in questo caso del Ruanda, evidentemente affascinato da questo nuovo modello di business. Con una sola differenza rispetto a Londra: in caso di accettazione della domanda d’asilo, il migrante sarebbe autorizzato a tornare in Austria. Ma il giudizio dell’Unhcr (l’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati) resta netto: «Queste pratiche minano i diritti di coloro che cercano sicurezza e protezione. Li demonizzano, li puniscono e possono mettere a rischio le loro vite».

L’Austria è il primo paese dell’Unione Europea a firmare un accordo di questo tipo con il Regno Unito. Ma i sostenitori della teoria dello “spostiamoli altrove” sono sempre di più, e stanno uscendo allo scoperto, lasciando intravedere uno schema, un piano, che in tempi brevi potrebbe diventare di difficile gestione. In principio fu la Danimarca, che già due anni fa, contravvenendo al suo passato (nel 1951 fu il primo paese a ratificare la Convenzione sui rifugiati), aveva ipotizzato una soluzione altrettanto drastica per sbarazzarsi del fastidioso problema delle migrazioni, raggiungendo intese di massima sia con il Rwanda, sia con il Kosovo (per l’accoglienza nelle loro carceri di 300 detenuti stranieri, in cambio di 15 milioni di euro l’anno). Mentre la scorsa settimana, nella riunione annuale che si tiene a Oslo, i cinque paesi che compongono il Consiglio Nordico (oltre alla Danimarca ci sono Norvegia, Svezia, Finlandia e Islanda) hanno deciso di “intensificare la loro cooperazione per rimpatriare gli immigrati senza residenza legale nei loro paesi di origine”. Segno evidente che l’intolleranza verso gli immigrati sta prendendo sempre più piede, soprattutto laddove cresce l’influenza dei governi più conservatori, o marcatamente di destra, che hanno ormai individuato nell’intransigenza la soluzione al problema migratorio. Indicative le parole pronunciate dal premier svedese, Ulf Kristersson: «Il governo svedese sta guardando alle politiche danesi sull’immigrazione mentre il paese combatte la violenza delle bande causata da una politica di immigrazione irresponsabile e un'integrazione fallita».

Anche l’Italia si mette in scia

Una tessera dopo l’altra: immaginatele disegnate con lo stesso colore sulla cartina dell’Europa. Regno Unito, il blocco del Nord. E ora anche l’Italia, con l’accordo firmato nei giorni scorsi dalla presidenza del Consiglio con l’Albania, un accordo che prevede la sistemazione in due hub in terra albanese, (capacità complessiva tremila posti, apertura prevista primavera 2024), di una porzione dei migranti salvati in mare dalle navi italiane (Palazzo Chigi parla di 36mila posti l’anno, ma l’ulteriore capienza dipenderà dalla rapidità con cui saranno vagliate le richieste di asilo). Il trasferimento in Albania non riguarderà i minori, le donne in gravidanza e i vulnerabili. E secondo Giorgia Meloni, che condivide molti punti della politica del premier britannico, questo accordo potrebbe diventare “un modello”. In cambio di cosa? Secondo il premier albanese Edi Rama è un gesto del tutto gratuito, senza contropartite, anche se appare inverosimile. L’accordo, che dovrà comunque essere ratificato dal Parlamento italiano, è ora al vaglio della Commissione Europea: «Siamo a conoscenza dell’accordo operativo tra le autorità italiane e albanesi – ha dichiarato una portavoce -. Siamo stati informati di questo accordo ma non abbiamo ancora ricevuto informazioni dettagliate. Comprendiamo che questo accordo operativo dovrà ancora essere tradotto in legge dall’Italia e ulteriormente implementato. È importante che qualsiasi accordo di questo tipo rispetti pienamente il diritto comunitario e internazionale».

Ma al di là dei dettagli, e dei timori che simili provvedimenti possano violare i diritti dei migranti (esseri umani, è bene ricordarlo, non scorie tossiche da gettare in qualsiasi angolo di mondo, purché lontano) quel che colpisce è il “successo” del modello. La quantità di nazioni che, pur con differenti gradazioni d’intransigenza, ritengono che la soluzione al problema sia nell’impedire, anche fisicamente, l’ingresso dei migranti, di spostarli d’imperio altrove. Un “sentimento” che è certamente figlio del sostanziale fallimento dell’Unione Europea sul tema, dopo tanti anni trascorsi senza riuscire a trovare una credibile soluzione comune, nonostante i continui tentativi, anche recenti. Così prevale la regola dell’ognun per sé: magari sperando che il “blocco” diventi così grande da poter influenzare, un domani più o meno prossimo, le decisioni collegiali, sempre ammesso che dietro le singole decisioni non ci sia un “disegno” organico. Il dubbio è concreto, perché alle nazioni “intransigenti”, definiamole così, già citate ne vanno aggiunte anche altre: l’Ungheria illiberale, la Polonia che nonostante il ribaltone politico alle ultime elezioni manterrà ferma la barra anti-immigrati, la Slovacchia del populista Robert Fico, appena salito al governo. I Paesi Bassi, dove il primo ministro Mark Rutte, lo scorso luglio, è stato costretto alle dimissioni proprio perché all’interno della coalizione che guidava non si è riusciti a trovare un accordo sulle politiche di asilo. E attenzione alla Germania, dove il partito di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD) continua la sua forte ascesa. Oppure alla Francia, dove l’estrema destra sta capitalizzando la paura conseguente al conflitto in atto tra Israele e Hamas. E alla Grecia, la cui politica migratoria «ha un effetto soffocante sui difensori dei diritti umani», come sosteneva ancora lo scorso anno Mary Lawlor, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei difensori dei diritti umani. «L’estrema destra sta vincendo il dibattito sull'immigrazione in Europa», sintetizza in un’analisi la rivista statunitense Foreign Policy. Europa che soltanto quest’anno, e finora, ha visto arrivare circa 200mila immigrati “irregolari” nel suo territorio, senza contare quanti ci hanno rimesso la vita, soprattutto nel Mediterraneo. Mentre, secondo Eurostat, nel 2022 sono stati circa 3 milioni i non europei che si sono trasferiti legalmente in un paese dell’UE.

Il rischio dell’effetto-domino

Tutto sta a capire se lo schema scelto dalle destre, più o meno corrispondente al modello inglese, per affrontare il difficile tema delle migrazioni sia coerente o meno rispetto alle regole stabilite nel diritto internazionale. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, e l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, Filippo Grandi, non hanno alcun dubbio: «Il disegno di legge sull’immigrazione illegale approvato dal Parlamento del Regno Unito è in contrasto con gli obblighi del paese ai sensi del diritto internazionale dei diritti umani e dei rifugiati e avrà profonde conseguenze per le persone bisognose di protezione internazionale. Il disegno di legge estingue l’accesso all’asilo nel Regno Unito per chiunque arrivi irregolarmente, dopo aver attraversato un paese - anche se brevemente - in cui non ha subito persecuzioni. Impedisce loro di presentare richieste di protezione per i rifugiati o altre richieste di diritti umani, non importa quanto siano convincenti le loro circostanze. Inoltre, richiede il loro trasferimento in un altro paese, senza alcuna garanzia che saranno necessariamente in grado di accedere alla protezione in tale paese. Crea nuovi ampi poteri di detenzione, con un controllo giudiziario limitato. Inoltre, effettuare allontanamenti in queste circostanze è contrario ai divieti di respingimento e di espulsioni collettive, al diritto a un giusto processo, alla famiglia e alla vita privata, e al principio dell’interesse superiore dei minori interessati». Anche Dunja Mijatović, Commissaria per i diritti umani del Consiglio d'Europa, ha più volte esortato il parlamento britannico a bloccare la nuova legge, sostenendo che «crea tensioni chiare e dirette» con gli standard fondamentali. Mentre Charlotte Slente, segretaria generale del Danish Refugee Council, ancora l’anno scorso sosteneva: «L’idea di esternalizzare l’asilo e la protezione dei rifugiati è irresponsabile e priva di solidarietà». Ancor più duro il giudizio di Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato, esperto di diritti umani, che sul settimanale Vita ha commentato così l’intesa appena raggiunta tra Italia e Albania: «Un accordo disumano, impraticabile, confuso e privo di basi legali. Nulla è stato comunicato sulle modalità di rimpatrio e sulle autorità che saranno incaricate di eseguire gli accompagnamenti forzati, né su come avverranno i trasferimenti sotto scorta dai punti di sbarco in Albania ai centri di detenzione “sotto giurisdizione italiana”. Di certo, fin dal momento dell’arrivo in Albania i migranti, già ritenuti comunque “illegali”, saranno totalmente privati della libertà personale. Secondo la sentenza n° 105/2001 della Corte Costituzionale qualunque procedura di allontanamento forzato attuata da autorità italiane attraverso il trattenimento in un centro di detenzione deve essere convalidata dalla decisione di un giudice. Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese? Alla fine, a pagare il conto di tanta disumanità, ci saranno persone in fuga, migranti forzati, rigettati da una frontiera a un’altra».

Ma non sarà certo un parere, pur autorevole, a frenare gli stati integralisti. Che continuano imperterriti a recitare i loro slogan (zero arrivi; non siete i benvenuti; anche se riuscirete ad arrivare, sarete ricacciati altrove; il vostro futuro è comunque altrove), nonostante siano stati formulati anche per scoraggiare le partenze e per porre un argine agli affari di chi si arricchisce con il traffico di esseri umani. Per cambiare il corso degli eventi servirebbero sentenze, disposizioni vincolanti (non a caso il Regno Unito ha minacciato di uscire dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, per sottrarsi così alla sua giurisdizione). Per questo sarà di fondamentale importanza il prossimo verdetto della Corte Suprema inglese. Se il piano britannico dovesse ottenere il via libera, l’effetto domino subirà una rapida accelerazione, con altissimi rischi per l’incolumità di chi sta fuggendo da guerre e persecuzioni. E a quel punto, chi controllerà, in Ruanda o altrove, che quei migranti saranno trattati da esseri umani? Chi stabilirà che quei paesi sono davvero “sicuri”? Chi risponderà di eventuali (eufemismo) illegalità, soprusi e violenze? Chi garantirà che quei centri (di detenzione, perché chi arriva lì è comunque privato della libertà) non si trasformino in lager? Chi difenderà il principio che il desiderio di vivere altrove non è, di per sé, un crimine? Mentre sono anni che Papa Francesco, inascoltato, continua a ripetere: «Quello dei migranti è uno scandalo sociale dell’umanità, una realtà davanti alla quale non possiamo chiudere gli occhi».

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