UNIVERSITÀ E SCUOLA

L'università come strumento di democrazia

Esiste un'idea chiara e universalmente condivisa su cosa siano le competenze? Cos'è che ci rende in grado di svolgere un lavoro, di fare un calcolo, di comprendere un testo, e di avere successo nella vita? In ambito accademico e professionale, si tende ad associare le competenze di un individuo alla sua capacità di portare a termine i compiti previsti dal suo incarico, ma di certo ognuno di noi si muove all'interno di molti altri ambiti durante la sua esistenza. C'è qualcosa che accomuna le cosiddette competenze specifiche e quelle trasversali? Quali sono, realmente, quelle che vengono sviluppate grazie all'università?

In modo coerente rispetto alle linee guida europee, è sempre più condivisa l'idea che l'obiettivo della formazione accademica dovrebbe essere quello di concentrarsi nella formazione dell'alunno, evitando il più possibile di limitarsi a un mero trasferimento di conoscenze a degli studenti come fossero contenitori.

È in quest'ambito che si inserisce lo studio Key-competences in higher education as a tool for democracy – Le competenze-chiave nella formazione universitaria come strumento di democrazia, diretto da Raffaella Rumiati, professoressa di neuroscienze cognitive alla SISSA di Trieste, la quale ci racconta come e perché è stata condotta la ricerca.

“Il fatto di mettere lo studente al centro della didattica e di tentare di guardare all'insegnamento in termini di learning outcome”, ci spiega, “non è una cosa che abbiamo inventato noi, ma un target che il nostro paese deve in qualche modo inseguire, perché è stato impresso dalla comunità europea nelle valutazioni di Yerevan del 2015, in cui si dice che le politiche per l'istruzione devono tenere al centro lo sviluppo del cittadino e della formazione permanente, incoraggiando la didattica a svilupparsi anche nell'ambito delle competenze”.

L'ANVUR (Agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario e della ricerca), istituita dal MIUR, ha collaborato quindi con alcuni atenei per somministrare a un campione di iscritti alle professioni sanitarie (infermieristica, fisioterapia e radiologia medica) un test di competenze, con lo scopo di individuare le caratteristiche che fanno sì che gli studenti abbiano successo e vengano assunti dopo la laurea.

Questo sondaggio è di gran lunga la valutazione più ampia sulle competenze degli studenti universitari condotto in Italia fino a oggi R.I. Rumiati et al., Key-competences in higher education as a tool for democracy, p. 13

“In quello studio ci siamo posti l'obiettivo di esaminare le competenze trasversali, cioè quelle che l'università non sviluppa direttamente ma che comunque, per effetto della frequentazione, lo studente dovrebbe essere in grado di potenziare, come quelle linguistiche, numeriche, e di problem solving”, spiega la professoressa Rumiati. “Abbiamo perciò somministrato prove di competenze linguistiche e numeriche, ma volevamo anche vedere se le competenze disciplinari, ovvero quelle esplicitamente impartite dal corso di laurea, vengono effettivamente acquisite all'inizio e alla fine del percorso di studi. Abbiamo messo a disposizione degli studenti una piattaforma, quella del cineca, abbiamo organizzato la prova e ci siamo presi cura dell'elaborazione dei dati”.

L'interesse era andare a vedere se nel tempo di permanenza presso l'università si potevano registrare delle differenze significative tra i nuovi studenti e i vecchi iscritti, secondo quello che si chiama metodo del valore aggiunto, che consiste nel calcolare il delta presente tra le prestazioni delle corti del primo e del terzo anno (non, quindi, degli stessi studenti seguiti dal primo al terzo anno). L'abilità linguistica e la capacità di calcolo e logica sono state valutate su tutti gli studenti allo stesso modo, mentre le competenze specifiche sono state analizzate separatamente all'interno dei singoli corsi di studio, per le diverse discipline in esame, con il supporto dell'ANVUR.

“Abbiamo trovato dei risultati molto interessanti. Abbiamo visto prima di tutto che le competenze trasversali, cioè le cosiddette literacy e numeracy, possono migliorare anche se i corsi non sono incentrati sulla formazione linguistica o quantitativa. Quindi c'è un effetto università che si riverbera anche su queste competenze cognitive di base. È una buona notizia perché si potrebbe ritenere che una volta sviluppate queste abilità, attorno ai 12 anni d'età, poi dopo non c'è più nulla da aggiungere, e invece non è vero”.

Questo arricchimento cognitivo generale non è, comunque, l'unico risultato degno di nota. Sembra, infatti, che la formazione universitaria riesca anche ad ammortizzare il divario di competenze presente tra studenti che provengono da diverse situazioni familiari e socio-economiche.

“Questo dato emerge per esempio dal PISA”, spiega la prof Rumiati, “che è un test rivolto agli studenti sui quindici anni, che dimostra che il rendimento scolastico è sempre influenzato da alcune caratteristiche iniziali. Infatti, chi ha dei genitori laureati è più probabile che vada bene a scuola. E se sono di alto reddito, è più probabile che siano laureati e che il figlio vada meglio a scuola. La presenza di un avanzamento in questi ambiti cognitivi, pur avendo uno “svantaggio” di partenza, è un'altra buona notizia. L'università lo attenua, anche se non lo cancella del tutto, almeno per quanto riguarda le competenze trasversali. Dove invece lo ammortizza completamente, nel senso che l'influenza di queste caratteristiche d'origine diventano trascurabili dal punto di vista statistico, è nell'ambito delle competenze disciplinari”.

C'è una crescita significativa, infatti, nei risultati dei test tra il primo e il terzo anno in tutte e tre le professioni sanitarie che sono state valutate. Il miglioramento è il prodotto vero e proprio dell'impegno che gli studenti hanno dedicato all'università, mentre gli effetti iniziali della famiglia cioè il reddito e il titolo di studio, diventano trascurabili.

Questo è quello che io chiamerei un risultato democratico perché mette tutti nella condizione di poter imparare un mestiere, e permette quindi di guardare all'università come ascensore sociale Raffaella Rumiati

A questo punto, però, è utile tenere a mente altre considerazioni a riguardo. Una di queste concerne il fatto che le competenze sono deteriorabili con il tempo, e che quindi, se non le si mantiene, non sono efficienti. Per esempio, la prof. Rumiati ci racconta di un risultato ottenuto in uno studio precedente, che dimostrava che gli iscritti alle facoltà umanistiche tendono a perdere le competenze numeriche nel corso della loro carriera universitaria. Viene da chiedersi, allora, in che misura l'organizzazione della didattica dovrebbe far fronte al problema, mettendo in condizione gli studenti almeno di mantenere le competenze di partenza?

Insomma, non sono proprio questi i risultati di cui dovrebbe servirsi chi regola e gestisce il sistema scolastico e universitario? Chi si occupa di educazione dovrebbe prendere spunto da studi come quello dell'ANVUR per realizzare delle politiche che siano basate sull'evidenza, e cioè sui risultati di ricerche scientifiche tecniche, che siano in ambito di economia, sociologia, o psicologia.

Fondamentale è quindi rimarcare il ruolo della scuola e dell'università per porre l'attenzione sull'importanza che un paese dovrebbe ascrivere all'educazione, grazie alla quale è possibile formare persone che saranno in grado di leggere il giornale, di andare banca e di votare consapevolmente. Di sviluppare, insomma, delle vere e proprie competenze alla cittadinanza.

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