SOCIETÀ

Immigrati: e se i cattivi fossero i media?

Mentre cresce il numero degli immigrati nel nostro Paese, di circa 102.000 unità in più rispetto al 2011 (Istat 2012), cresce anche la paura verso il “diverso”. Uno stereotipo, quello dello straniero/criminale, che i media contribuirebbero ad alimentare con le loro scelte redazionali. Il tema è stato oggetto di una recente ricerca del dipartimento di Psicologia dello sviluppo e della socializzazione.

L’indagine ha analizzato le modalità attraverso cui i media concorrono nel costruire le percezioni delle persone sugli immigrati e sulla sicurezza delle città in cui vivono.  “I risultati ottenuti - spiega il professor Vaes - mettono in luce l’effetto esercitato dai media sul pregiudizio, indipendentemente dagli altri fattori che concorrono a determinare il pregiudizio”. La ricerca, effettuata somministrando un questionario on line a un campione di 422 individui di nazionalità italiana, tendeva  a scoprire quali processi psicologici influenzino il legame tra i media e il pregiudizio. Se, da una parte, il contatto diretto con un immigrato produce un effetto positivo, e il pregiudizio tende a diminuire, “in modo paradossale, il contatto in forma indiretta - spiega Vaes - cioè per il tramite dei mezzi di comunicazione di massa, dà luogo a un effetto esattamente opposto”. Secondo un’indagine dell’Istat “I migranti visti dai cittadini residenti in Italia”, infatti, la percezione della discriminazione verso gli immigrati è presente nel 59,5% dei cittadini italiani, mentre la maggior parte degli intervistati ritiene difficile per un immigrato l'inserimento nella nostra società (80,8%). 

L’esposizione ai media però non sarebbe tale, da sola, a giustificare un inasprimento dei sentimenti negativi nei confronti degli immigrati, ma dipende dal tipo di media cui si presta attenzione: i giornali con un orientamento politico più conservatore come Il Giornale o Libero o le reti televisive che con i loro telegiornali dedicano oltre il 25% della loro agenda ai fatti di cronaca nera (Canale 5, Italia 1 o la rete ammiraglia della Rai) sono legati a un aumento della percezione negativa dello status dell’immigrato. I lettori percepiscono anche “un problema di ordine sociale”, spiega il professor Luciano Arcuri. Accade, invece, il contrario per chi guarda o legge canali televisivi “storicamente” più progressisti come La7 e giornali come La Repubblica (che dedicano meno del 16% del loro palinsesto a eventi di cronaca nera).

“Il modo con cui recuperiamo informazioni dal cervello è tendenzioso - prosegue il professor Arcuri - la sottolineatura di determinati eventi non è sempre collegata alla quantità reale di fatti accaduti”. Nel biennio 2010-2011, i telegiornali parlavano nell’11% dei casi di criminalità, mentre gli stessi servizi nei programmi di informazione dell’UE erano il 6% del totale. Ma, mentre in Italia in quel periodo si commettevano 45 atti criminosi ogni 1.000 abitanti, in Europa ne avvenivano 65 su 1.000 abitanti. In pratica, i telegiornali italiani parlavano più spesso di crimini mentre la criminalità era sostanzialmente minore rispetto a quella di altri Paesi dell’Europa. “Tali processi psicologici - spiega ancora il professor Vaes - contribuiscono a distorcere la stima della frequenza con cui gli immigrati commettono crimini. Più le persone sono convinte che gli immigrati sono responsabili della maggior parte dei crimini, più si sentono giustificate a esprimere un atteggiamento negativo nei loro confronti”.

La frequenza delle notizie, da sola, sembrerebbe non bastare a determinare il pensiero della comunità nei confronti degli immigrati. Un nodo fondamentale riguarderebbe anche il modo con cui queste notizie sono scritte. Secondo Marco Bruno, sociologo dell’università La Sapienza di Roma “da un singolo evento si rischia di arrivare a un problema sociale”. Il sociologo pone l’accento sulle scelte lessicali dei giornalisti e sulla “ipertipizzazione” di queste: “Esiste un abbondante uso delle etichette etniche e dello status di clandestino a tal punto che l’aggettivo acquisisce un uso denotativo come se fosse un sostantivo”.

Già negli anni Settanta, in un saggio reperibile in una delle storiche raccolte di Castronovo e Tranfaglia sul comportamento della stampa verso i movimenti sociali degli anni Settanta, è identificabile la rappresentazione, nella stampa, del “deviante” legata alla figura del “capellone”, oggi sostituibile con “immigrato”. Reiterare nei titoli termini come “albanese stupra una minorenne” o simili porterebbe, insomma, a identificare l’immigrato come la persona da temere. In questo senso, anche l’abbondare di termini nei titoli come “ennesimo”, “scia”, “invasione” e altri simili, porterebbe i fruitori delle notizie a ingigantire problemi che in realtà non superano livelli di guardia. “La parola invasione - continua Bruno - viene spesso usato su numeri impropri che non rispecchiano le reali proporzioni del fenomeno”. Mentre l’immigrato, nei giornali e nei telegiornali, appare quasi nella totalità dei casi associato a fatti delittuosi e di sangue, si rischia di trasformare un singolo caso in un luogo comune in cui il diverso è additato in generale come la causa degli episodi di cronaca.

Ad avvalorare la tesi dell’influenza mutuata dai media sulla percezione del migrante si aggiunge anche il Rapporto di otto associazioni italiane (Luglio 2012), presentato recentemente al Comitato per l’Eliminazione della Discriminazione Razziale delle Nazioni Unite (CERD), che denuncia la diffusione in Italia dell’incitamento all’odio razziale nel discorso pubblico politico e mediatico, il cosiddetto racist hate speech, così come l’incremento del razzismo diffuso attraverso internet e i social network.  Certo, esistono anche le cosiddette buone notizie che esulano dal contesto e in cui l’immigrato appare come una “persona perbene”. Ma questi esempi di cronaca appaiono così di rado e meno in risalto rispetto alla media che gli effetti sul pensiero comune non sono così grandi da modificare il quadro generale del pregiudizio. 

 

Ma.S.

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