UNIVERSITÀ E SCUOLA

Insegnare non è solo questione di titoli

Non serve un titolo per saper insegnare. Un’idea, quella di Anthony Seldon, preside del Wellington College, apparsa in questi giorni su The Guardian in risposta alle posizioni del vice primo ministro britannico Nick Clegg che si oppone all’assunzione di docenti non qualificati nelle scuole britanniche. Questo per assicurare in ogni istituto, al di là dell’autonomia scolastica, standard minimi di qualità e l’insegnamento del curriculum nazionale. Da parte sua Seldon parla di vocazione. Alcuni possiedono il dono di saper insegnare mentre ad altri non bastano dieci anni di università. È necessario avere passione e intelligenza, cuore e cervello, amare la materia e i ragazzi. La profonda conoscenza dei contenuti dev’essere accompagnata da una abilità comunicativa in grado di spingere i giovani a voler apprendere. 

“Sicuramente quando si lavora nella scuola sono necessarie doti caratteriali e comunicative – sottolinea Mauro Toffanin, docente di lettere in un liceo scientifico – ma queste da sole non bastano. La formazione universitaria fornisce l’indispensabile “cassetta degli strumenti”, dalle tecniche di insegnamento alla conoscenza dei nuovi supporti didattici, fino ai fondamenti della pedagogia e psicologia dell’età evolutiva. Queste se da un lato costituiscono le basi teoriche della professione, dall’altro consentono anche di gestire con maggior consapevolezza la relazione docente-studente”. E di chiedersi ad esempio davanti allo scarso rendimento di un ragazzo o di cattiva condotta, se esistano problematiche di altro tipo. 

Secondo Aurora Scala, preside del liceo classico “Tito Livio” di Padova, la questione di fondo è un’altra. “Oggi assistiamo a una mancanza di dialogo e comunicazione a tutti i livelli sociali che inevitabilmente si riflette anche a scuola, sia tra gli insegnanti che tra i ragazzi. Di certo la capacità di comunicare è una dote umana che nasce dal carattere e dalla società e non è un titolo a garantirla. Tuttavia la preparazione universitaria fornisce all’insegnante gli strumenti e le competenze utili per migliorare e fare una politica di risultato non solo dal punto di vista didattico, ma anche comunicativo”. Ed è attraverso il processo di valutazione, del lavoro degli studenti ma anche di quello dei docenti, che si può realizzare se gli obiettivi stabiliti sono stati raggiunti. “In Francia e in Germania esistono professionisti istituzionalizzati all’interno delle scuole (i coordinatori della didattica ne sono un esempio) che supportano il lavoro degli insegnanti e facilitano i rapporti. Tutto questo in Italia non avviene e la scuola va avanti grazie all’impegno degli insegnanti e dei dirigenti scolastici”. 

Dello stesso avviso anche Tiziana Gallo, docente in un’istituto professionale con nove anni di esperienza anche in istituti tecnici e licei: “L’insegnante a scuola è da solo. Le classi sono numerose, talvolta sono presenti ragazzi con disturbi specifici di apprendimento, che necessitano di una pianificazione differenziata rispetto al resto della classe”. Dunque programmi differenti e diverse valutazioni, senza trascurare al tempo stesso la preparazione degli altri ragazzi. Senza un’adeguata formazione professionale questo risulterebbe difficile. Tanto più che la scuola, da parte sua, non può fornire alcun supporto perché i fondi mancano. Secondo Tiziana Gallo sono l’impegno e il senso di responsabilità a fare di un docente un buon docente nonostante tutti, istituzioni in testa, dimentichino che lavora con pochi mezzi e contribuisce a formare i cittadini del futuro. 

Se dentro la scuola la linea è questa, fuori anche in Italia non manca il dibattito. “Il lavoro di educatore – si legge nel libro Salvare gli innocenti. Una pedagogia per i tempi di crisi (La Meridiana 2012) di Goffredo Fofi, giornalista e critico letterario e cinematografico – non può partire che da una vocazione… La domanda che dovrebbero porsi gli educatori è sul peso che in questa crisi così vasta e profonda può avere l’educazione, o meglio, una co-educazione comunitaria e collettiva e che tipo di scuola potrebbe avere ancora utilità e senso”. Il marchio di una laurea non basta. La formazione universitaria, sebbene importante, non garantisce un buon insegnante in grado di stimolare le potenzialità che gli studenti possono esprimere se opportunamente guidati. Pier Aldo Rovatti, docente di filosofia contemporanea all’università di Trieste, sottolinea su Repubblica come l’amore per il sapere passi necessariamente per la relazione. La scuola è innanzitutto una palestra di comunità e socializzazione, che rischia di mancare al proprio mandato “quando prevalgono altre istanze o si privilegiano altri obiettivi, per esempio l’apprendimento della disciplina”. 

Il compito di un docente, aggiunge Massimo Recalcati psicanalista e docente all’università di Pavia, non è distribuire sapere ma generare amore per il sapere, quel desiderio di apprendere “che si propaga dalla forza e dalla parola dell’insegnante capace di scuotere dal sonno… dall’inerzia”. E conclude: “Non è forse questo quello che la scuola burocratizzata della valutazione e della informatizzazione sospinta rischia di dimenticare?”. 

Monica Panetto

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