SOCIETÀ

Italiani all'estero. In contanti

A coloro che si sono preoccupati o scandalizzati per l'ennesimo passaggio di un marchio italiano in mani straniere – il gioiellino Loro Piana al gruppo del lusso di Arnault – non farà piacere scoprire che ogni anno circa 8 miliardi di euro espatriano attraverso i fondi pensione. Il dato emerge dal Decimo rapporto sullo stato sociale, curato dall'economista Felice Roberto Pizzuti e realizzato da un gruppo di lavoro della facoltà di economia della Sapienza. Rapporto che, oltre a parlare in via generale delle tendenze e delle evoluzioni del nostro welfare, si concentra sui temi pensionistici. Tirando fuori, tra gli altri, un numero poco conosciuto, che ci dice dove i fondi pensione investono i soldi loro affidati dai lavoratori.

I fondi pensione, si ricorderà, erano la grande promessa della riforma Dini: con incentivi fiscali e normativi si è cercato di sviluppare la previdenza integrativa, e avere così due pilastri in più per sostenere la vecchiaia: uno affidato alla contrattazione collettiva, con i fondi pensione cosiddetti “negoziali”, che gestiscono secondo il sistema a capitalizzazione (cioè investendoli) i contributi integrativi di imprese e lavoratori stabiliti nei contratti; e un altro affidato alle assicurazioni private, che ciascuno è libero di stipulare per suo conto, con piani individuali. Fondi negoziali e fondi privati, messi insieme, fanno adesso un patrimonio di 100 miliardi: una bella cifra, anche se decisamente inferiore alle aspettative. Infatti quando la riforma fu varata e si introdusse il meccanismo del “silenzio assenso” per il conferimento del proprio Tfr (il trattamento di fine rapporto) ai fondi pensione, si pose come obiettivo che questi arrivassero a coprire il 40% dei potenziali interessati: invece adesso sono solo al 25%.

Dunque, si legge nel Rapporto, non pare raggiunto l'obiettivo di una vasta diffusione dei fondi privati e negoziali, tanto vasta da garantire un futuro sostenibile alle generazioni più giovani, penalizzate dall'evoluzione del sistema pensionistico. I rovesci dei mercati finanziari – dove i soldi dei fondi vengono investiti –, e il bassissimo livello delle retribuzioni dei giovani lavoratori precari hanno frenato il decollo della previdenza integrativa. Ma quel che c'è, anche se inferiore al previsto, non è comunque trascurabile: un flusso di 12 miliardi all'anno, di cui 5 dai trattamenti di fine rapporto. Ben 8 dei quali volano all'estero. Deludendo così quanti pensavano e profetizzavano che lo sviluppo della previdenza integrativa avrebbe fatto bene alla asfittica borsa italiana. In sostanza, si pensava che il flusso di denaro messo da parte in investimenti pensionistici sarebbe andato in buona parte a finanziare gli investimenti produttivi delle imprese italiane, aprendo un circolo virtuoso tra risparmio, produttività, risanamento del welfare state.

Così non è stato, se, come si legge nel Rapporto presentato da Pizzuti, il 70% del flusso finanziario che viene dai fondi pensione va all'estero, e della restante parte meno di un punto percentuale va in azioni delle imprese italiane. Si potrebbe obiettare che non c'è niente di male in questo, che i fondi devono gestire i soldi dei lavoratori e delle imprese nel modo più produttivo possibile, e se il mercato italiano è poco attraente non è certo colpa dei gestori del risparmio previdenziale. Ma c'è un'altra strada percorribile, soprattutto in un momento in cui gli stessi fondi risultano poco appetibili, e i rischi legati ai mercati finanziari globalizzati evidenti a tutti?

Il Rapporto avanza una proposta. Nei fondi negoziali, “sindacati, imprese e stato potrebbero concordare nuove modalità d’investimento costituite da attività creditizie dei fondi pensione a favore dello stato, pensate ad hoc, con l’eventuale emissione di speciali titoli pubblici sottostanti”. Si tratterebbe insomma di emissioni speciali di titoli pubblici ad hoc, con garanzie di stabilità e abolizione dei costi delle intermediazioni; i soldi così raccolti potrebbero andare a finanziare programmi specifici d'investimento, “in specifici progetti di rinnovamento delle infrastrutture sociali e produttive il cui costante degrado è tra le principali cause del nostro ‘declino’”. In sostanza, nel Rapporto si propone un piccolo (o grande) new deal fatto di investimenti pubblici, un programma economico co-finanziato con i soldi dei lavoratori, con garanzie di rendimento ma con una destinazione specifica. Una proposta “alla tedesca”, con una cogestione di sindacati e imprese di un progetto che deve però avere garanzia e titolarità pubblica. Fuga in avanti accademica? Forse. Ma alla presentazione del Rapporto, nella facoltà di economia della Sapienza, l'idea non è dispiaciuta a diversi esponenti sindacali e politici.

Roberta Carlini

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