CULTURA

L’immobilismo del Veneto nella poesia di Francesco Targhetta

Francesco Targhetta, classe 1980, trevigiano di nascita ma padovano di formazione, PhD in italianistica e poi insegnante precario, ha presentato mercoledì 5 settembre, al Festivaletteratura di Mantova, nella cornice raccolta della sagrestia di San Barnaba, il suo secondo libro ma primo romanzo, edito da ISBN, casa editrice nota per lo sperimentalismo dei suoi autori.

Se infatti il libro precedente, Fiaschi, era una raccolta di poesie, questo secondo è un romanzo in versi, che della poesia ha la forma (il verso) e del romanzo la struttura (la narrazione).Targhetta, in una lunga chiacchierata telefonica, confessa di sentirsi però poeta, più che romanziere, fin da quando, ragazzo, passava i pomeriggi a scrivere testi di canzoni che poi musicava con la band. Quindi venne la scoperta di Gozzano e da lì l’amore per una poesia che sia in grado di raccontare storie e non ceda troppo alle lusinghe del verso ermetico, pur conservando quello spazio di sfuggevolezza che le è proprio.

Nel suo romanzo, quindi, è la poesia a prevalere, riuscendo però in un esperimento prezioso: unisce quanto di più tradizionale, il verso, ad una trama assolutamente contemporanea. Non si muove nessuno qua, perciò veniamo bene nelle fotografie viene detto, a tre quarti dell’opera. Sono parole che sottolineano la stasi della crisi odierna, laddove la parola non ha più nulla di etimologico, perché i protagonisti del romanzo, l’alter ego dello scrittore e i suoi amici, nulla possono più scegliere. Si muovono, in realtà, ma girano a vuoto e trasmettono il disagio di una generazione. Alcuni di loro partono per cercar fortuna all’estero, per altri l’estero si ferma a Torino; il protagonista sta sul fronte, la sua Padova topaia.

Ed è a Padova, a Treviso, nell’hinterland veneto, e, per cenni, a Torino, che si dipana la narrazione, fatta principalmente di vita quotidiana: fotografie, dice bene il titolo, di un mondo descritto dal verso, a tratti sincopato, a tratti cadenzato in rima, che permette accostamenti che funzionano, che rendono l’idea. È un susseguirsi di pensieri stridenti, di delusioni macinate in appartamenti scalcinati, con le stoviglie spaiate e i turni di pulizia, un alternarsi di desideri di sopravvivenza e di voglia di cambiare, declinati in un linguaggio sperimentale che l’autore definisce per certi suoi accostamenti persino “pop”, e su cui aleggia, velata, quando serve, l’ironia.

 

…te lo comunica di spalle, spremendo

un’arancia di ritorno dal Brico, la buccia

che impregna la casa d’autunno,

tra una goccia di aspen prima

di coricarsi e una di cherry plum

dopo colazione…

 

La poesia di Targhetta nasce infatti dall’ossimoro, dalla bruttezza che trasfigura in improvviso bagliore, che accosta il naturale - l’arancia tonda, sugosa, spremuta, odorosa, perfetta - al “qui e ora” il più delle volte artificiale e scabro - la Brico - che, i padovani lo sanno, certo non è l’Arcadia.

L’impressione di sfascio è voluta: di Padova si incontrano solo le vie peggiori, l’Arcella degradata, le notti brave finite a vomitare, letteralmente, la cena ed i pensieri, per riuscire a respirare un giorno ancora. Ci senti l’eco di Ammaniti ma l’acume dell’autore non si traduce in cannibalismo e la bruttezza resta come unico luogo possibile per fare poesia.

Ha però dell’universale il suo narrare, perché ci puoi leggere la tua di Padova - anche se non ci sei mai stato- ovvero la metafora del tuo di mondo: solitudine nostalgica della caramelle Rossana che la nonna dispensava; merendine taroccate usurpatrici delle madeleine proustiane per spender poco. È la nostalgia di chi, spiega l’autore, appartiene a quella generazione, la sua, che non sa che futuro potrà vivere e perciò guarda indietro. La definisce una “nostalgia inquinata” perché non nasce dal rimpianto di un momento eccezionale di per sé, ma dal desiderio di fuggire dal presente e riporta a quegli unici altri momenti conosciuti di cui perciò si sente la mancanza.

Il finale apre al futuro:

 

…E se dicono

i mandorli che si è fatto aprile,

non sarebbe oltraggio domandarsi,

al risveglio, il ricordo di sé

    quanto impieghi

                            a sparire,

             la propria stagione

a cambiare di segno.

 

Di Francesco Targhetta aspettiamo i prossimi versi e, insieme a lui, che il segno cambi.

 

Valentina Berengo

 

Francesco Targhetta, Perciò veniamo bene nelle fotografie, ISBN, 2012

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