SOCIETÀ

La fabbrica cinese in Europa

Milioni di operai intercambiabili a piacimento, teste chine che producono a velocità disumane e salari così bassi da potersi permettere solo una ciotola di riso. Generalmente, questo è quello che ci viene in mente pensando alle fabbriche cinesi. Ma le cose stanno lentamente cambiando, in meglio e con caratteri inaspettati. Uno sguardo senza pregiudizi, centrato sull'evoluzione concreta di una realtà importantissima ma ancora poco conosciuta – la Cina rappresenta per molti versi la prima economia mondiale, anzitutto dal punto di vista della capacità produttiva – è venuto dal recente convegno “Forms of labour in Europe and China. The case of Foxconn”. Tenutosi a Padova negli ultimi giorni di giugno, l'incontro ha visto la partecipazione di ricercatori sociali di molti paesi, Cina e Hong Kong compresi, e sindacalisti europei. 

Le ricerche da cui il convegno prende le mosse, ricorda Devi Sacchetto, del dipartimento FISSPA dell'Università di Padova, che ne ha curato l'organizzazione assieme a Rutvica Andrijasevic, dell'università di Leichester, hanno avuto inizio 3 anni fa e si sono focalizzate sulla multinazionale taiwanese Foxconn, che conta 1.3 milioni di occupati e produce le più avanzate tecnologie al mondo per Apple e HP.  Più in generale, i contributi portati al convegno rappresentano un nuovo modo di guardare la produzione globale, che oggi non è più solo lo spostamento dell’industria manifatturiera dai paesi ricchi ai paesi poveri, ma un cambiamento complessivo del mondo del lavoro e del modo di produrre, e all'interno di questo un passaggio di tecniche, pratiche lavorative, investimenti e insediamenti produttivi in senso contrario, dalla Cina verso l’Europa e i mercati maturi. 

Grazie alle analisi di Chris Smith (Università di Londra, Royal Holloway College) ci si è confrontati sulle dinamiche messe in atto dalle imprese cinesi che investono all’estero. Una delle domande che i partecipanti al convegno si sono posti è: esiste un modello cinese come modalità specifica di gestione della forza lavoro e della produzione, distinta da altri modelli di organizzazione industriale come il fordismo o il toyotismo? Pur essendo taiwanese, la Foxconn presenta le caratteristiche tipiche di un ipotetico modello di questo tipo. In essa troviamo scarsissima democrazia interna, orari di lavoro prolungati, utilizzo di dormitori per alloggiare operai lontani dalle loro abitazioni, l’uso di lavoratori-studenti in tirocinio pagati poco e un sistema di gestione del personale duro, nel quale la gerarchia esercita continue pressioni sulla forza lavoro. 

Questo sistema di gestione non interessa solo le filiali asiatiche, ma anche quelle turche e europee dell’est.  Le ricerche che hanno investigato le realtà di Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia, infatti, mostrano un panorama molto diverso da quello che ci aspetteremmo riguardo a lavoratori europei, a partire da inattesi fenomeni di concorrenza all’interno della stessa Unione europea, dove le autorità locali e nazionali spesso funzionano come "macchine statali per la produzione" rispetto alle multinazionali. I ministeri e le diverse agenzie regionali dei vari paesi aiutano le imprese straniere offrendo loro benefici specifici nel caso investano in precise aree del loro territorio e si pongono di fatto al servizio delle loro esigenze. 

Il modello cinese emergente non riguarda solo le tecniche di produzione, come poteva essere quello della Toyota, ma si concentra particolarmente sulla gestione della manodopera. Esso conta sull’utilizzo di personale cinese all’estero e fa forza sui lavoratori flessibili, ossia quei lavoratori che accettano anche le condizioni più dure, più che sui lavoratori privilegiati, altamente formati e relativamente ben pagati come era nel modello Toyota. Proprio la capacità di effettuare produzioni di altissima complessità e precisione con operai poco qualificati e precari è infatti una delle caratteristiche di questo modello emergente. Il rovescio della medaglia sono fortissimi livelli di stress e malcontento, alto turn-over e forme di protesta diffusa, dai suicidi che hanno colpito le fabbriche negli anni passati a interruzioni del lavoro e conflittualità, come le ricerche di Pun Ngai, sociologa del lavoro alla Hong Kong University of Science and Technology attestano. 

Spesso la Foxconn ha dichiarato di voler comprare robot per eliminare le proteste operaie. La scelta tecnologica però, pur essendo un percorso plausibile, non risolve il problema della forza lavoro che è comunque necessaria, e livelli di automazione troppo elevati portano spesso a danni più che a miglioramenti in termini di flessibilità, oltre che a non essere convenienti finanziariamente. 

In Cina viene anche utilizzata la politica del "GoToWest", ossia lo spostamento delle industrie verso le aree d'origine dei migranti interni, in zone più povere, in modo da poter abbassare i salari e trovare nuovo personale. Oltre a questo, vengono impiegati anche studenti che hanno l’obbligo formativo di fare un tirocinio di 6 o 9 mesi, ovviamente sottopagato, mettendo così in catena di montaggio ragazzi di 16 anni costretti a lavorare 12 ore al giorno (il turno, lunghissimo, tipico di queste industrie). Tali strategie permettono di mantenere bassi i livelli salariali, che altrimenti sarebbero costretti ad alzare a causa della carenza di manodopera, dovuta alla stagnazione demografica che ha avuto luogo dagli anni 2000 per la politica del figlio unico e all'enorme espansione commerciale che ha moltiplicato il bisogno. 

Al convegno sono stati invitati esponenti dei sindacati europei per poter capire come democratizzare le condizioni di lavoro alla Foxconn e per poter avere maggiore accessibilità a quanto accade all’interno degli stabilimenti all'interno dell'UE. È stata messa in evidenza, però, una incapacità di intervento, da parte anche di sindacati europei storici, nelle situazioni concrete. A fronte di una corporation così ramificata e complessa, oltre al confronto, difficile, con la dirigenza, nei fatti si vedono difficoltà nel collaborare fra sindacati a livello transnazionale. Gli apparati sindacali ci sono, ma con forti differenze in base al paese in cui si trova lo stabilimento. Si guarda, infatti, troppo allo specifico nazionale e non al globale non riuscendo così a trovare una politica comune a livello europeo e incontrando ancora più difficoltà di coesione tra Europa e Cina. In molti stabilimenti della Foxconn, così come nella maggioranza delle industrie cinesi all’estero, non esistono sindacati se non interni, e quelli esistenti vengono spesso utilizzati per controllare e gestire la forza lavoro più che per difenderne i diritti. Un esempio lampante si ha quando troviamo la segretaria del direttore generale come presidente del sindacato interno di uno stabilimento Foxconn. Questo ci fa capire la difficoltà dei lavoratori stessi nel chiedere aiuto o nel lamentarsi delle condizioni lavorative. 

L'accesso al campo per i ricercatori è stato molto problematico. Oltre alla barriera linguistica, spesso i lavoratori hanno paura di finire sui giornali e non si esprimono liberamente; bisogna, inoltre, considerare le differenze culturali: l’idea stessa di lavoro risulta diversa quando si mettono a confronto Occidente e Oriente. Questo convegno è stato, quindi, un modo per mettere a confronto ricercatori, sindacalisti e operatori sociali riguardo le condizioni di lavoro degli operai nelle fabbriche del "modello cinese", tanto in Cina che in Europa. Come risultato finale c’è stato un comune accordo sull'importanza di premere per la democratizzazione della politica lavorativa della Foxconn guardando anche agli investitori che stanno dietro questa ditta come Apple, HP e Sony. Ma la domanda sul nuovo paradigma di lavoro rimane tutta aperta, e la ricerca – teorica e sul campo – continua.

Elisa Scalabrin

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