CULTURA

La natura viva di Andrea Zanzotto

Ha sfiorato più volte il premio Nobel per la letteratura, e poeta rimane anche quando scrive in prosa e si occupa di paesaggio. Si parla di Andrea Zanzotto, una delle grandi voci della poesia italiana contemporanea, scomparso nel 2011, e di cui esce in questi giorni per Bompiani Luoghi e paesaggi, una collezione di scritti inediti o difficilmente reperibili sul tema del paesaggio, raccolti e curati da Matteo Giancotti.

E poeta rimane sia nel linguaggio che nell’approccio, quasi un visionario innamorato della vitalità della natura, che racconta come fin da giovane si arrampicasse sulle Prealpi, lasciando andare avanti i suoi compagni e prediligendo  tragitti laterali, “per un bisogno di solitudine e di colloquio più diretto e più ritmato con le forme della natura”. Un bisogno nato forse già di fronte ai paesaggi appesi alle pareti domestiche, opera del padre miniaturista e pittore, che lo “riportavano tra l’infinitudine dell’appello dei colori” dei luoghi natii.

Ecco la genesi, forse, dei 18 testi raccolti in questo volume, scritti solo apparentemente episodici, che rivelano però una lunga traccia coerente, coagulandosi in nuclei che vanno dalle riflessioni teorico-estetiche sull’idea di paesaggio, alla lode del paesaggio veneto, all’invettiva contro gli scempi che la civiltà infligge alla natura. Una lunga traccia che parte già dagli anni Cinquanta – gli anni immediatamente successivi all’esordio poetico – per giungere fino all’ultimo periodo. 

Come accade spesso nelle prose dei poeti, queste si tramutano in un distillato dei principi che stanno dietro alla produzione poetica, e come tali risultano preziose. Ne emerge, tra le altre, l’idea del paesaggio come opera d’arte diffusa, una così particolare “percezione dei luoghi” per cui per Zanzotto parlare della laguna o delle abitazioni tradizionali del Feltrino equivale a descrivere un’opera d’arte. E quando racconta l’emergere del paesaggio nella pittura e la “vendemmia dei colori” che riempiono le tele al posto degli sfondi dorati, racconta della pittura veneta, ma con la certezza della primogenitura: il paese veneto ha fatto la pittura veneta, ne è convinto. E la descrizione dell’uno si fonde con la descrizione dell’altra: “La tastiera dei legni, delle essenze vegetali, dal nocciolo e dal sambuco – sottigliezza, umile snellezza – fino al rovere primordialmente forzuto […] E poi folle di erbe, nubi, acque – il trapasso perlato delle acque, la loro stasi sognante –, argentee arterie, fini tendini, polpa di ombre e di muschi nel seno del mondo”.

Mentre riflette sui rapporti tra i suoi versi e la montagna, apparentandosi al Petrarca che ascende il Mont Ventoux, oppure sulla sua etica del lavoro, che unisce la fatica di contadini e montanari alla sua fatica di scrivere, ogni giorno “come dopo una passeggiata e quasi sotto l’effetto di essa”, Zanzotto si disvela ancora una volta autentico poeta del paesaggio, e non solo per il suo afflato verso quel che considera “l’epifania più adeguata della natura”.

Colpisce infatti la sovrapposizione, quasi l’immedesimazione luminosa fin dal primo saggio del volume, tra natura e poesia, entrambe generate e non progettate, obbedienti alle stesse regole apparentemente casuali. Dove natura però è il paesaggio, “universo descrittivo e annotato”, sorta di riflessione umana sull’essenza viva esattamente come lo è la poesia, dove manufatto e vita si compenetrano e si identificano.

Cristina Gottardi

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