CULTURA

Mauro Corona, una fiaba d'autunno

Anche attraverso l'incanto può trasparire una durezza priva di riscatto, e un lieto fine che rispetta tutte le forme più classiche della fiaba può contenere, al suo interno, vene del pessimismo più profondo. La casa dei sette ponti, che Mauro Corona ha pubblicato alcuni mesi fa, è entrambe le cose assieme: apologo amaro su un tempo – il nostro – senza futuro e, assieme, racconto di una riconciliazione. Vita che attraverso il dolore, nel più classico dei percorsi, ritrova se stessa, e congedo da un mondo non più redimibile.

Lontanissimo, per tanti versi, dalla completa assenza di speranza che intesseva La fine del mondo storto, ma anche tagliato dal medesimo legno. Libri a due facce, come certi giacconi di lana cotta della montagna più povera, in cui al grigio ardesia si mescola, nel tessuto spesso, il chiaro e il calore di pochi fili, pochi ciuffi luminosi.

Quale delle due è la trama più profonda, il senso della scrittura di questo racconto? La durezza del destino cui siamo consegnati, come nel Canto delle manére, o la capacità di trovare, nel fluire delle parole – e dunque nella relazione, nel comune – uno spiraglio per intravvedere, se non un "noi", almeno la possibilità di formarlo? Nella parola, e dunque nella scrittura, che per Corona rappresenta la personale e particolarissima via per comprendere, e comprendendo fare ordine in sé e nella propria esperienza del mondo, come traspare da alcune righe quasi nascoste ma fortemente autobiografiche ed intense. Scrittura che è respiro, e senso, strappato con fatica e stupore. Fiato. Filo d'arianna contro l'insensatezza ultima e indifferente che incombe.

In questo breve libro ricorrono molti dei "luoghi" di Corona, della natura come dei personaggi. Il protagonista, che incarna il nostro meglio, come determinazione e capacità, curiosità e spessore umani, ma anche del nostro peggio, nel senso della fame di ricchezza e della perdita di radici, è un sessantenne di quella generazione che, giunta a un'età in cui tutte le precedenti lasciavano il passo ai più giovani e "rallentavano" riposandosi dalla fatica, ha ancora in mano tutto e nulla vuole lasciare a figli che nessuno nomina, in una quasi programmatica assenza di futuro. Fermatosi a una casa vista mille volte, che lo incuriosisce e assieme lo respinge, sulla strada tortuosa che porta al paese di montagna in cui è nato e da cui è fuggito presto, scopre attraverso un breve cammino per sette "ponti" che più che collegare sponde aprono abissi, la sua vera origine: come in una fiaba del nord, in cui i folletti sono troll e le fate spiriti non necessariamente benevoli. Per nulla, a volte.

Le figure che riconosce su questo cammino, cariche di tutta la durezza della vita "di una volta" cui Mauro Corona ci ha abituato nei suoi libri lo conducono a conoscere se stesso e gli permettono di tornare, letteralmente, a casa, in un viaggio interiore al termine del quale c'è poco, e c'è moltissimo, fuori del nostro "mondo storto".

Sola guida, il filo appena accennato ed enigmatico delle parole di due anziani, abitatori di una casa con il tetto segnato dal tempo, che regge l'inverno e le piogge stretto sotto teloni variopinti, in un'alleanza fra gli scarti del mondo di plastica e le scandole di pietra e travi di castagno della fatica di ieri. Casa i cui camini fumano sempre, con l'immagine che per lo scultore e scrittore di Erto come per ogni altro montanaro è l'antitesi "fisica"dell'abbandono, il segno sicuro della presenza umana. Un fuoco che non fatichiamo a sentire vicino a quello che, agli antipodi, fra altre montagne Miyazaki antropomorfizza e fa nume tutelare, allegro e giocoso, del suo castello errante di tavole e lamiere, luogo del possibile e rifugio dei suoi eroi sghembi.

Segno di una vita "autentica"? Sì, a anche no: il tetto coperto dai teli è un rovesciamento, i resti di quel che abbiamo costruito invano e nello spreco "salvano" le pietre e il legno della tradizione, ma evocano il fascino e l'inquietudine dell'Arlecchino-Hellequin, maschera vestita attraverso le epoche dei brandelli delle uniformi di tutti gli eserciti e del dolore di tutte le battaglie. Diventano, insieme, "mattoni" per un futuro e una riconciliazione, e lieto fine secondo i più classici canoni  delle fiabe. Passando, però, per l'abbandono di tutto ciò che abbiamo fatto. Di più: per il congedo dalla nostra vita come l'abbiamo conosciuta, già svuotata da dentro senza che ce ne rendessimo conto. Un risveglio, in cui l'amaro si mescola al senso di sé ritrovato.

Nella visione di Corona, fra le righe di questo suo racconto così come – da alcuni anni – in altri suoi libri, non c'è apparentemente redenzione possibile, né futuro per il mondo (e il paese, prima ancora) che abbiamo costruito negli ultimi decenni, e che possiamo solo abbandonare – mentre i nostri successori si fanno avanti, pazienti e infaticabili, ambiziosi e determinati come noi ieri, a sostituirci. E come noi, destinati al medesimo scacco, a tempo debito; alla stessa corsa verso il superfluo e la perdita di ogni senso e ogni radice. Ma domani, quando di noi resterà solo il nome.

Una storia già scritta, nella quale rimane soltanto il posto per uno scarto, una "resa invincibile" – per usare le parole di un altro sconfitto di successo, Andrea Pazienza. Resta la possibilità del ritorno ad una vita più essenziale, scabra, al contatto con una natura che ci ignora, ma è piena di bellezza, di stupore, verso cui Corona guarda da tempo. E resta, qui, il ritorno a casa, una casa povera in cui anche a 60 anni siamo sempre figli, perché non abbiamo vissuto davvero – se non per pochi fili intrecciati nel flusso dell'inutile, quelli che ora ci consentono di ritrovarci. Figli di qualcuno di più saggio di noi, perché passato per il dolore senza rifiutarlo e per la povertà senza coprirla di illusioni, e dunque, classicamente, capace di abitarvi e di trovarvi il proprio posto.

Un esodo in forma di fiaba, questo, in cui lieto fine e disincanto senza speranza si scambiano di posto nella luce incerta dei boschi e in quella abbagliante di una natura indifferente e ferita, e danzano sul filo del più cupo pessimismo per la nostra società, verso una salvezza vera ma soltanto individuale, "per sottrazione".

Togliendo il disturbo, e trovando – forse – un senso.

Michele Ravagnolo

 

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