SOCIETÀ

Non solo stagionali. Contadini, e verdure, che vengono da lontano

Per crescere l’Italia guarda al passato. E non lo fa contemplando le imprese dei “grandi” dell’economia e della politica dei secoli scorsi, ma – letteralmente – rimboccandosi le maniche della camicia e riscoprendo mestieri a lungo trascurati. Come l’agricoltura.

Lo sanno bene i giovani che tornano al lavoro dei loro nonni o bisnonni, e soprattutto i tanti stranieri che cercano l’America nei campi italiani: ogni anno in 60.000 provenienti dalle coste mediterranee e dall’Est affondano le mani nelle zolle del nostro paese, a lungo trascurate dalla gran parte degli italiani che il lavoro sporco (e faticoso) sembravano trovarlo socialmente degradante.

La maggior parte di loro ha cominciato come lavoratore stagionale, nei campi da maggio a settembre, il periodo della raccolta. Una risorsa importante per chi gestisce un’azienda agricola, che riesce a sopperire a una mancanza di manodopera dovuta a molteplici fattori: da un lato la fatica e gli stipendi relativamente bassi, dall’altro le motivazioni di ordine sociale. Sia il lavoro dipendente che il lavoro autonomo sono diventati cartine di tornasole di un fenomeno, la presenza di migranti nell’agricoltura, che sembra prendere piede in maniera sempre più consistente. Per quanto riguarda il lavoro dipendente infatti, tra il 2008 e il 2011 si è assistito a un progressivo aumento delle assunzioni di lavoratori stranieri che sono passate dal 55% al 64% delle assunzioni complessive nel settore primario; ancor più significativo è il fatto che di queste circa il 35% siano a tempo indeterminato.

Tale incremento è il risultato di un fabbisogno di manodopera che è divenuto ormai strutturale nel settore agricolo e che trova nei lavoratori stranieri sufficienti garanzie di flessibilità e di affidabilità sul lungo periodo. “Questa presenza costante è diventata ormai insostituibile – racconta Alberto Bertin dell’Ufficio giuridico-legislativo della Coldiretti Veneto – e ha reso possibile la fidelizzazione di operai che nel tempo sono diventati specializzati in particolari tipi di coltura per le conoscenze acquisite nell’ambito del territorio o della vegetazione locale”. Non sono rari i casi in cui il dirigente di un’azienda richiede di anno in anno l’intervento di uno specifico lavoratore straniero, o di un gruppo già formato, nella propria impresa per dare seguito a interventi iniziati nella stagione precedente o occuparsi di lavori precisi.

Dall’acquisizione di competenze e dalla specializzazione alla voglia di fare da sé e mettersi in proprio – classico passaggio di tutte le emigrazioni riuscite, come gli italiani sanno bene – il passo è breve, e in diversi casi comincia ad accadere. In un panorama a lungo caratterizzato, soprattutto nelle aziende tradizionali (la grande maggioranza), da un progressivo invecchiamento dei conduttori e dove da qualche anno si vede l’ingresso di personale giovane e ricco di idee per il futuro, fra le nuove aziende agricole non mancano infatti quelle dirette da lavoratori stranieri.

Provengono dall’India, dal Bangladesh, dalla Cina, dal Marocco e dalla Polonia, hanno meno di 40 anni e tanta voglia di creare qualcosa di redditizio e stabile per il proprio futuro. Hanno maturato nei nostri campi le conoscenze dei terreni e delle tecniche di lavorazione autoctone e sono ora pronti a mettersi in proprio. In generale, il lavoro autonomo costituisce ancora un ambito perlopiù precluso ai lavoratori stranieri, sia per l’indisponibilità dei capitali iniziali necessari, sia per  il peso della burocrazia, che coinvolge tutte le attività imprenditoriali e che verso gli stranieri assume spesso le sembianze di un incombente leviatano di carte. Tuttavia, i dati relativi al lavoro autonomo degli stranieri, se opportunamente contestualizzati, rilevano anche in questo caso un leggero ma incontestabile – e significativo – trend di crescita.

Nel territorio veneto almeno una trentina di aziende agricole sono infatti gestite da imprenditori non comunitari. Gli imprenditori stranieri hanno dalla loro la possibilità di sfruttare “nicchie” di mercato che l’agricoltura italiana non ha finora quasi visto, ma che loro conoscono bene, e che hanno grandi margini di crescita. Accanto ai prodotti tipici della tradizione mediterranea alcuni seminano infatti korola, lady’s fingers e okra, varietà coltivate per lo più nel sud est asiatico e destinate alle tavole delle comunità d’origine immigrate e della ristorazione etnica in Italia e all’estero. Possono così offrire le varietà richieste da mercati “etnici” molto più sviluppati del nostro come quello di Londra unite all’origine italiana, che ha un pregio consolidato, e sfruttare la molto maggior vicinanza ai mercati finali rispetto ai produttori dei paesi asiatici. Lo stesso luogo di origine interno all’Unione europea agevola poi di molto i passaggi necessari.

La Coldiretti, che segue la nascita e lo sviluppo di nuove aziende agricole, si è occupata anche di loro e fornisce un accesso al mercato tramite i progetti di Campagna Amica, che dedicano spazio ai prodotti nazionali nelle piazze italiane. I piccoli imprenditori stranieri lo allargano poi con il porta a porta e i più abili e fortunati con le più redditizie esportazioni, rendendo così conveniente coltivare appezzamenti di terreno relativamente esigui (sotto i 10 ettari) e in passato trascurati.

Si tratta, con ogni probabilità, delle prime avvisaglie di un fenomeno che pare destinato raggiungere fra qualche anno percentuali significative, causa il calo demografico italiano e la carenza di lavoro in altri settori. Sempre fra il 2008 e il 2011, infatti, la presenza di imprenditori agricoli provenienti da paesi non comunitari è aumentata dal 4,7% al 5,4% sul totale dei lavoratori autonomi nel territorio regionale. Considerando la precarietà del panorama economico generale, questi dati sembrano confermare un processo di progressiva apertura dell’intero settore agricolo verso lavoratori e investimenti non italiani.

Annamaria Gennaro

Alberto Carraro Baido

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