UNIVERSITÀ E SCUOLA

Pochi laureati e sottoinquadrati: la debolezza del modello Italia

Lavoratori sì, ma di laureati se ne vedono davvero pochi. Almeno in Italia. È quanto emerge dal rapporto 2013 di Unioncamere, che conferma come il tasso di occupati in possesso di una laurea sia il più basso tra i paesi dell’Unione europea. 

Si tratta di una peculiarità tutta italiana, che ha radici storiche (la tardiva alfabetizzazione del nostro Paese) a cui si aggiunge il “cortocircuito” tra formazione e ingresso nel mondo del lavoro. Secondo i dati elaborati da Unioncamere, infatti, nel 2013 meno di un occupato su cinque (pari al 18,7%) possedeva in Italia un titolo di studio di livello universitario. Un gap evidente rispetto alla Ue, dove chi lavora tende ad avere un livello di istruzione medio decisamente più elevato. Basti pensare che il possesso di una laurea vale per il 29% dei lavoratori della Germania, per il 35% dei francesi e per il 40% degli occupati del Regno Unito. Lo squilibrio è notevole e riflette un problema antico: i lavoratori più anziani in Italia tendono ad avere un livello di istruzione decisamente minore rispetto a quello degli altri colleghi europei, a causa del fenomeno della scolarizzazione di massa, relativamente più recente in Italia rispetto ad altri Paesi. Ma, anche prendendo in considerazione solo la classe di età 20-49 anni, quella maggiormente attiva e largamente in possesso di un titolo di studio, la situazione cambia di poco. I laureati rappresentano infatti solo il 20% degli occupati in Italia, contro una media europea che si attesta invece sul 34,7%.

A rendere più complessa l’anomalia italiana, ci pensa anche il livello di qualifica raggiunto dai lavoratori in possesso di un titolo universitario. Per Unioncamere infatti i laureati svolgono in larga parte lavori per cui risultano sovraqualificati, cioè esercitano attività per le quali sarebbero richieste competenze inferiori a quelle in loro possesso. Il fenomeno del sottoinquadramento sarebbe aumentato negli ultimi anni e per lo studio di Unioncamere si tratterebbe del cosiddetto skill mismatch, il disallineamento tra la domanda e l’offerta di competenze sul mercato del lavoro. Questo divario tra effettiva competenza e ruolo svolto sarebbe la conseguenza di due situazioni: da una parte una scarsa disponibilità di opportunità lavorative adeguate al livello di qualificazione dei laureati. Dall’altra un aumento della concorrenza a causa della crescita dei livelli medi di istruzione (con particolare riguardo all’incidenza dell’istruzione universitaria) e della relativa offerta di lavoro. Questo aumento non riesce comunque a intaccare ancora la distanza tra l’Italia e gli altri Stati dell’Unione. Il problema del sottoinquadramento risulta essere serio sotto diversi aspetti. Per prima cosa  un simile sfruttamento delle risorse umane provoca un rendimento non ottimale. D’altra parte, per quanto, soprattutto a inizio carriera, una mansione inferiore alle qualità espresse possa essere normale, a lungo termine il blocco permanente in una posizione per cui si è sovraqualificati comporta il rischio non trascurabile di depauperamento del capitale umano. Lo skill mismatch denuncia anche una debolezza strutturale della domanda di lavoro qualificato, legata a quelli “che sono erroneamente considerati vincoli alla crescita del nostro sistema produttivo - si legge nel rapporto di Unioncamere - (ridotta dimensione media delle imprese, specializzazione produttiva in settori a tecnologia matura, modello competitivo che tende a privilegiare la riduzione dei costi) che non permettono di assorbire, per quanto contenuto, l’incremento dell’offerta di lavoro qualificato”. Sebbene l’investimento in formazione paghi ancora (ad esempio, come probabilità di ingresso nell’occupazione), alcuni lavori hanno evidenziato come - a partire dagli anni Novanta - il differenziale salariale associato al possesso di un titolo di studio universitario si sia decisamente ridotto.  Ancora maggiore è stata la riduzione osservata per i diplomati. Investire in capitale umano paga sempre ma relativamente meno che in passato: “I dati Ocse - si legge ancora nel rapporto - evidenziano come il tasso di rendimento interno degli investimenti in istruzione universitaria sia decisamente inferiore rispetto ad altri Paesi avanzati, per gli uomini e soprattutto per le donne”. La riduzione dei rendimenti, così come il sottoinquadramento diffuso nelle mansioni potrebbero essere una delle cause del disincentivo agli investimenti in capitale umano “con effetti negativi sulla crescita economica potenziale nel medio periodo”. 

Mattia Sopelsa

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012