SOCIETÀ

Riscaldamento globale e posti di lavoro

Il ciclone Sidr, che ha colpito il Bangladesh nel 2007, ha danneggiato centinaia di migliaia di piccole imprese, coinvolgendo 567.000 lavoratori. L’uragano Katrina del 2005 ha provocato da solo nella zona di New Orleans la perdita di oltre 40.000 posti di lavoro (alcuni stimano una cifra complessiva di 70.000). Lo ricorda il rapporto del Comitato per lo sviluppo sostenibile, il lavoro decente e le professioni verdi dell’International Labour Organization (Ilo), pubblicato a marzo di quest’anno e adottato il 19 giugno scorso dalla sessione plenaria della International Labour Conference.

Il cambiamento climatico è già qui – questo è il messaggio – ma non è più questione di previsioni, spesso contestate, di ricercatori e climatologi quanto invece di considerazioni pragmatiche sugli effetti inevitabili che il mutamento del clima porta anche nel mercato del lavoro, e dall’urgenza di redigere l’agenda di sviluppo post-2015. La riduzione delle emissioni di gas serra, la tutela dell’ambiente, la battaglia contro l’inquinamento di acqua e aria non sono più l’aspirazione a un mondo migliore ma una necessità: il rapporto cita previsioni di perdita di produttività di 2,4 punti percentuali entro il 2030 e 7,2 entro il 2050 a causa del gas serra se si mantiene il trend attuale. Senza contare che il riscaldamento globale avrà conseguenze sulle attività di pesca e agricoltura, che occupano oltre un miliardo di persone.

Il principio Business as usual – continuare come nulla fosse – non può più essere applicato. Anzi, sviluppo sostenibile, lotta alla povertà, ricerca di equità sociale e il diritto a un lavoro dignitoso per tutti si trovano a coincidere, nelle valutazioni dell’Ilo. Il valore del rapporto e del dibattito dei giorni scorsi sta nel fatto che per la prima volta nella storia dell’organizzazione i 174 delegati di governi, imprenditori e sindacati hanno espresso una visione comune per il futuro.

La ricetta perfetta, come si dice da anni, è la Green economy, e il “greening” progressivo di lavoro, mercato, industria, abitudini. Ma green non vuol dire facile. Se è certamente auspicabile passare a energie alternative e a una società meno basata sul carbone, questo non vuol dire che la transizione sarà semplice, priva di problemi e senza effetti sull’impiego e sulle possibilità di reddito. Quanto alle previsioni, il rapporto fornisce le stime occupazionali legate alla green economy per molti paesi, ma registra una curiosa assenza di dati per due delle principali economie come Russia e India. E le previsioni per la Germania risultano separate dal resto dell’Unione Europea.

Tra le sfide da affrontare, una vera ristrutturazione economica, dovuta alla trasformazione delle aziende e alla necessità di imprese e comunità di adeguarsi ai cambiamenti climatici e di evitare perdite di capitali e migrazioni forzate.

Il passaggio alla nuova economia – si insiste – non può avvenire in base a un modello preconfezionato uguale per tutti, ma a seconda delle necessità e particolarità del singolo paese: un monito contro l’imposizione arbitraria di regole dall’alto, ma anche un alibi per ogni scelta nazionale troppo comoda o diluita nel tempo.

La necessità di un accordo delle parti sociali in questa fase di trasformazioni è un altro punto sottolineato dall’Ilo, affermazione certamente di principio ma di applicazione meno ovvia di quanto sembri, così come l’attenzione alle piccole e medie imprese (che rappresentano due terzi dell’impiego globale e sono le più esposte alle fluttuazioni di ambiente e mercato) o l’auspicato ricorso alla formazione permanente o allo sviluppo del capitale umano.

Con un unico problema: la necessità di pervenire a una definizione comune di cosa si intenda realmente per economia verde.

Cristina Gottardi

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