UNIVERSITÀ E SCUOLA

Stop ai dottorati senza borse. Rivalutiamo la ricerca

A partire da un articolo di Claudio Giunta apparso su Internazionale col titolo “Ha senso fare un dottorato in discipline umanistiche?”, Il Bo ha ospitato nelle scorse settimane quattro interventi riguardanti ruolo e prospettive del dottorato di ricerca nel nostro Paese.

Molte si è detto, molte analisi, molte riflessioni e molte proposte, in larga parte convergenti, anche con i dovuti distinguo, e in larga parte condivisibili. Senza nessuna pretesa di originalità vale però la pena sottolineare alcuni punti.

Il primo è relativo al fatto che il dottorato di ricerca, qualunque sia la sua specificità disciplinare, deve rimanere un titolo che si acquisisce nell’ambito di un percorso di formazione alla ricerca. E questo nonostante le ultime direttive europee vadano nella direzione di considerare il dottorato solo come un terzo livello di formazione superiore per colmare le lacune o le carenze dei primi due. Sarebbe importante che il nostro governo si impegnasse a livello europeo per correggere questa tendenza.

Un secondo punto riguarda il fatto che la distinzione tra dottorati umanistici da un lato, e tecnico-scientifici dall’altro sembra radicarsi nelle diverse esigenze del mondo del lavoro: si sostiene infatti che per i dottorati umanistici lo sbocco rimane essenzialmente quello della ricerca accademica, mortificata dai tagli ai finanziamenti dell’università, mentre per i dottorati tecnico-scientifici ci sarebbe un mercato anche fuori dell’università. Questo sicuramente vale in alcuni paesi, ma non nel nostro dove da tempo si è imboccato il vicolo cieco della modernizzazione senza innovazione. D’altra parte, una domanda più o meno esplicitamente presente in tutti gli interventi è: ha senso la pretesa di correlare strettamente la formazione alla ricerca con le attuali richieste del mondo del lavoro? Forse prima o poi ci si accorgerà che per ovviare al declino del paese è necessario rivalutare il ruolo della ricerca in molteplici settori, pubblici e privati. E questa rivalutazione non potrà che essere favorita dalla presenza di persone capaci di farla, la ricerca. L’università dovrebbe offrire orizzonti alle generazioni a venire non solo a quelle di oggi.

Un terzo punto, più tecnico, concerne l’eccessiva proliferazione dei dottorati. Su questo è intervenuto, almeno in parte, l’ex ministro Profumo con un decreto dal titolo “Regolamento recante modalità di accreditamento delle sedi e dei corsi di dottorato e criteri per la istituzione dei corsi di dottorato da parte degli enti accreditati”. Tralasciando le molte critiche al decreto di Profumo già espresse in altre sedi, ci limitiamo a un paio di considerazioni. La prima riguarda il fatto che dovrebbero essere eliminati i dottorati senza borse, se non per coloro che vengono distaccati da enti pubblici o privati che dovrebbero farsi carico di continuare a pagare lo stipendio al personale che segue il corso di dottorato a tempo pieno. La seconda considerazione è relativa alla costituzione di consorzi tra più sedi universitarie, funzionale da un lato a contenere la proliferazione dei dottorati e, dall’altro, a elevare il numero di docenti qualificati disponibili anche in settori disciplinari non sempre adeguatamente rappresentati nei singoli atenei. Ma l’esperienza dei consorzi, già sondata nel passato, non ha sempre sortito gli effetti positivi desiderati. Andrebbe oggi riconsiderata con attenzione.

Infine un ultimo punto, in parte connesso al precedente. Perché in Italia al dottorando è vietato fare didattica? Per evitare che il docente usi il dottorando per svolgere compiti che dovrebbe svolgere lui stesso? Per evitare che si crei un’aspettativa di carriera universitaria? Basterebbero pochi interventi per ovviare a questi problemi e si potrebbe, almeno in parte, coprire la borsa di dottorato proprio con contratti di docenza alla luce del sole. Tra l’altro, la ricerca nasce anche dagli stimoli che vengono nella preparazione dei corsi.

Fermo restando che tutte queste considerazioni si basano sul presupposto che i corsi di dottorato siano corsi, cioè abbiano una loro seria articolazione funzionale alla formazione alla ricerca, e che l’ammissione al corso di dottorato sia rigorosa e non basata su mere logiche localistiche e/o di bottega. Tuttavia questi aspetti di tipo deontologico non si regolano certo per legge.

Giulio Peruzzi

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