SOCIETÀ

Una scatola nera chiamata scuola

Il titolo è duro, appena mitigato dal punto interrogativo finale: Requiem per la scuola?. Ma la forma dubitativa non è un artificio retorico, nel libro di Norberto Bottani, grande esperto di scuola e politiche educative, appena pubblicato per i tipi del Mulino. Perché Bottani effettivamente si interroga sul destino dell’istituzione pubblica. A parole la più celebrata e ricercata, depositaria e affidataria di ogni speranza di sviluppo – sociale, economico e umano – nei paesi che devono uscire dalla miseria come in quelli di nuovo impoverimento. Ma qual è il contenuto di questo affidamento? Quale compito diamo davvero alla scuola, e quanti degli obiettivi che nei decenni le abbiamo assegnato sono stati raggiunti? E se abbiamo fallito, non è  forse il caso di celebrare il funerale della scuola così come l'abbiamo fatta finora, e pensarne un'altra?

Sia pure in un testo breve e agile – che ne segue altri, in una ricerca sviluppata nel tempo soprattutto dal ricchissimo osservatorio Ocse – Bottani affronta la complessità di queste domande e traccia possibili risposte. Non si tratta di provocazioni, anche se a tratti lo stile è quello del pamphlet; e non si tratta di un altro capitolo della (fortunata) letteratura sui disastri della scuola italiana. La questione è più generale, e investe tutti i sistemi, quelli che funzionano meglio e quelli che funzionano peggio. Parlando di scuola pubblica, ovviamente: quella che si propone di dare a ciascuno le stesse opportunità, e portare tutti i ragazzi e le ragazze ad avere un livello minimo comune di conoscenze  e competenze. Bene, nel secolo scorso e nei primi anni del nuovo molto è stato fatto; ma, dimostra l'autore, da nessuna parte possiamo dire che l'obiettivo sia stato raggiunto: lo “zoccolo comune delle conoscenze e delle competenze” di cui parlano i francesi è una chimera quasi ovunque.

Neanche nei sistemi scolastici che funzionano di più, come quello finlandese e quello coreano (opposti, diversissimi, ma accomunati nei buoni risultati delle competenze dei quindicenni misurati dal metro Ocse-Pisa), si può dire che quell'obiettivo sia centrato in pieno. La politica “espansionistica” - aumentare la quantità dell'istruzione e della scuola, prolungare gli anni di studio – ha portato sì più persone al diploma, ma ha lasciato intatte le differenze sociali svuotando il valore effettivo di quel diploma. Così, l'auspicato ascensore sociale dell'istruzione non ha funzionato, e anche il tanto osannato valore del merito può diventare un fattore che cristallizza l'esistente: certo che la scuola deve premiare chi si impegna di più, ma l'origine dell'impegno e del rendimento “è marcata dall'eredità che si riceve”, e dunque l'ideologia del merito può finire per legittimare (confermandole) le disuguaglianze di partenza. Possono esserci sì delle eccezioni, delle storie di riscatto bellissime ed emozionanti: ce n'è una che sta conquistando lettrici e lettori in libreria, nelle vite parallele di Lenù e Lila, le due amiche protagoniste degli ultimi romanzi di Elena Ferrante, L'amica geniale e Storia del nuovo cognome (edizioni e/o), vite segnate dalla presenza e dell'assenza della scuola e dei suoi oggetti, e da mitiche figure di insegnanti. Ma sono, per l'appunto, eccezioni - dice Bottani. La regola è un'altra, ricorda Bottani: la scuola, per come la conosciamo e la facciamo davvero, non cambia né compensa né rattoppa le ingiustizie della nostra società.

Ma: è questo il compito che dobbiamo dare alla scuola? E nel caso, è adatta questa scuola, costruita e pensata più di un secolo fa, come i sistemi ferroviari che sono rimasti lì con le loro stazioni e le loro rotaie? O ne servirebbe un'altra, completamente diversa? Nel rispondere a queste domande, l'autore nota che è cambiato il contesto in cui le poniamo. È da un po' che “la scuola evolve in un mondo ostile”. È come se chiedessimo solo alla scuola di essere buona e giusta in un mondo che non è né buono né giusto. Così, i rapporti tra scuola e società si sono ribaltati. “Non è più alla prima che si trasferisce il dovere di formare buoni cittadini e di creare una società di giusti, ma è alla seconda che si chiede di tollerare la scuola con le sue tradizioni obsolete, il suo lessico e i suoi riti”. È una specie di “armistizio tra i due mondi”. Che porta con sé varie conseguenze, dalla svalutazione del prestigio degli insegnanti, allo scollamento tra cambiamento tecnologico e innovazioni educative, a quella che l'autore chiama “impotenza educativa”.

Come reagire a questo fosco quadro? Bottani non esclude in teoria niente, neanche la possibilità di resettare il sistema, abolire l'istruzione statale, passare addirittura a forme di istruzione fai-da-te (come quelle studiate da Sugata Mitra a Nuova Delhi) agevolate dalla robotica e dalla digitalizzazione. Ma richiama continuamente la prudenza necessaria per esperimenti che non si possono fare in laboratorio e l'enorme difficoltà pratica di andare a riformare un sistema concentrato più sulla gestione del proprio personale che su quel che si fa in classe. Anche sistemi collocati fuori dalla scuola statale, ai quali l'autore guarda con interesse e curiosità (si fa l'esempio delle charter schools americane), possono aiutare, a suo parere, ma senza alcuna funzione salvifica. Dunque, nessuna ricetta buona per tutti; ma alcune linee di indirizzo sì: dare più autonomia alle scuole, prendere dai sistemi che funzionano meglio (o falliscono meno) alcune buone idee, non affidarsi solo alla quantità di scuola (ore, insegnanti, soldi). E soprattutto, ripensare e rivedere la formazione e il ruolo degli insegnanti. Perché è sempre a loro, e “a quanto succede in quella 'scatola nera' che è ancora la classe”, che si deve e si dovrà il futuro della nostra scuola.

Roberta Carlini

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