UNIVERSITÀ E SCUOLA

Università e lavoro: tutto quello che sapete è falso

Basta aprire un giornale qualsiasi, in un giorno qualsiasi, per leggere che l’università italiana non prepara i laureati per le esigenze di un mercato del lavoro in continua evoluzione. Come ha scritto Francesco Coniglione su Roars, l’accusa è: “Troppo astratta, generica, poco professionalizzante la preparazione che viene data nei curricula universitari, che non hanno nessuna connessione col mondo del lavoro e che pertanto non forniscono alle aziende le figure tecniche e i quadri di cui queste hanno bisogno”. 

Allo World Economic Forum di Davos, nel 2013, la società di consulenza aziendale McKinsey ha organizzato una sessione intitolata Education to Employment: Designing a System that Works. Il video mostrato è pieno di affermazioni ormai considerate incontestabili, come queste: “Young people today are three times as likely as their parents to be out of work. Yet many employers can’t find people with the right entry-level skills to fill their jobs”. Per capire quanto siano fondate queste certezze, che l’università non prepara e che gli imprenditori non trovano personale qualificato, occorre però andare un po’ a fondo e indagare sulle premesse di questi ragionamenti.

Tutto questo si fonda sulla teoria del mismatch, del “disallineamento” tra competenze possedute dal laureato medio e competenze richieste dall’imprenditore medio che ha una posizione da coprire. Le cose non sono però così semplici: prima di tutto, nonostante la mondializzazione, i mercati del lavoro rimangono fortemente nazionali o locali perché la mobilità dei lavoratori non è certo illimitata. Se mi offrono un posto di lavoro a 1.000 euro nella mia città posso accettarlo, se me lo offrono a Londra, dove con un salario di questo tipo occorre scegliere fra pagare l’affitto e procurarsi due pasti al giorno, magari ci penso tre volte.

Come si ricorderà, l’allora ministro Elsa Fornero accusò i giovani italiani di essere “schizzinosi” nella ricerca di lavoro, una battuta non solo cinica, ma poi smentita da tutte le ricerche sulla disponibilità al trasferimento dei neolaureati (e infatti l’emigrazione giovanile, soprattutto nei paesi europei, negli ultimi anni è esplosa). Resta il fatto che la mobilità del fattore lavoro non può essere perfetta per ragioni economiche, culturali, linguistiche, affettive. Quindi è perfettamente possibile che nel distretto delle piastrelle a Sassuolo manchino operai specializzati per questo settore, o che a Cortina manchino i maestri di sci, ma chiaramente queste esigenze locali non sono affrontabili a livello del sistema educativo nazionale.

La seconda, e più importante, ragione per dubitare dei cliché nati a Davos e supinamente adottati dalla stampa è il fatto che le ricerche Ocse dimostrano che il mismatch è un fenomeno sopravvalutato nelle sue dimensioni: esiste, ma i dati non consentono di sostenere che la situazione italiana si discosti sensibilmente da quella degli altri paesi. Secondo Almalaurea, il consorzio di 64 atenei, che ogni anno presenta la propria indagine sulla condizione occupazionale dei laureati, “la documentazione Ocse testimonia al contrario che l’Italia presenta un’incidenza inferiore alla media delle due principali forme di disallineamento: la sovra e la sottoqualificazione dei lavoratori rispetto alle mansioni assegnate”.

Una sciocca propaganda alimentata a suo tempo dal ministro Gelmini ha convinto molti che in Italia ci siano, per esempio, troppi laureati in Lettere destinati alla disoccupazione in un mondo che non saprebbe che farsene di loro. Almalaurea, ci dice invece che “la quota di immatricolati nel settore delle scienze umane e dell’educazione nel 2010 era pari al 19% in Italia contro una media Ocse del 21% e un valore per la Germania del 23% (Ocse, 2012)”. Certo, se l’università producesse solo laureati in arte bizantina il disallineamento rispetto al mercato del lavoro sarebbe notevole, ma la realtà è che, tra il 2001 e il 2012, gli immatricolati in Lettere e Filosofia sono diminuiti del 4% mentre quelli in medicina, scienze matematiche e fisiche, ingegneria, sono aumentati di circa il 2%. Quindi gli studenti si stanno effettivamente spostando verso corsi di studio che dovrebbero assicurare formazioni ben definite (medico, ingegnere) e aiutarli a trovare rapidamente un lavoro. Invece, la disoccupazione giovanile si è moltiplicata.

Per capire meglio le ragioni del mismatch forse occorre guardare non all’università, ma alla struttura del sistema produttivo italiano. Sempre Almalaurea ci dice: “La conferma che il ridotto assorbimento di laureati e la ridotta valorizzazione della conoscenza abbia a che vedere anche con le caratteristiche delle imprese è offerta, in questa fase di crisi, dai dati dell’indagine Excelsior sulle previsioni di assunzione secondo i quali la propensione ad assumere laureati cresce significativamente con le dimensioni delle imprese e con il grado di internazionalizzazione e di innovatività di queste ultime” (p.22). Sappiamo, però, che il tessuto produttivo del nostro Paese è fatto per l’essenziale di imprese piccolissime e che “la piccola dimensione delle imprese si associa, tipicamente, a una minore capacità di valorizzare il capitale umano, minori performance innovative e un inferiore grado di internazionalizzazione delle imprese” (p.23). Inoltre, entra in gioco il familismo italiano: “Secondo stime recenti, tra le imprese a proprietà familiare, la quota di quelle a gestione familiare è in Italia del 66,3% contro il 35,5% della Spagna e il 28% della Germania” (p.23). Ovvero: tutto rimane in famiglia, senza cercare “sangue nuovo” all’esterno. (1-continua)

Fabrizio Tonello

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