SOCIETÀ

Uscire dalla crisi? Ci vuole un’econonomia diversa

Da ieri è in libreria “Sbilanciamo l'economia. Una via d'uscita dalla crisi”, di Giulio Marcon e Mario Pianta. Presentiamo qui un estratto dal secondo capitolo “Sette strade per uscire dalla crisi”.

   

L’economia che uscirà dalla crisi italiana non può essere la stessa che vi è entrata: il che cosa e come si produce deve tener conto di nuovi vincoli – il risparmio di risorse ed energia, la riduzione delle emissioni – e delle opportunità che si aprono in un’economia verde: la riconversione di tecnologie e produzioni, l’uso dei saperi, le risposte a bisogni più sobrii e diversificati.

Un'economia sostenibile apre nuove frontiere di produzioni e consumi in grado di creare occasioni per le imprese e nuovi posti di lavoro. Occorre riconvertire nel segno della sostenibilità le produzioni energetiche, le forme e la modalità della mobilità, l'agricoltura, fino anche alla siderurgia, la chimica o all'industria delle costruzioni. La sostenibilità ambientale non è dunque un settore tra gli altri di un'economia diversa, ma è il modo in cui l'economia può riconvertirsi e indirizzarsi verso un modello di sviluppo alternativo. I cambiamenti climatici, l'esaurimento delle fonti fossili e di molte materie prime, l'insostenibilità dell'estensione del livello di consumi occidentale a tutto il pianeta, la continua espansione demografica: questi ed altri processi ci impongono di cambiare rotta. Non si tratta di aprire un nuovo business, quello della green economy, ma di cambiare radicalmente modo di pensare, di produrre, di consumare e con esso i nostri stili di vita e i comportamenti quotidiani. La sostenibilità ambientale è alternativa ai progetti di grandi opere come la Tav, il ponte sullo Stretto, il ritorno al nucleare – fortunatamente evitato con il referendum del 2011 – la moltiplicazione di inceneritori e rigassificatori, la cementificazione del territorio, il sostegno all'industria dell'automobile e alla lobby degli autotrasportatori attraverso gli incentivi fiscali sull'acquisto del gasolio.

Le alternative di un'economia diversa, ecologicamente sostenibile, si devono confrontare con le scelte strategiche di un diverso modello di sviluppo dove il cosa produrre e il cosa consumare diventano la sfida di un nuovo paradigma, che mette al centro la qualità dello sviluppo. L’epoca della rapida crescita quantitativa del Pil è davvero finita. Perfino l’ottimistico scenario di lungo termine dell'Ocse per l'Italia non va oltre un’ipotetica crescita media dell'1,4% del Pil fino al 2060, con una sostanziale stagnazione rispetto ai livelli pre-crisi e un arretramento rispetto al rapido sviluppo delle economie emergenti di Asia e America latina. L’Italia – e l’Europa – deve progettare un nuovo modello di sviluppo che metta al centro la qualità della crescita, la sostenibilità ambientale, la giustizia sociale. Le politiche vanno ridisegnate sulla base di questi obiettivi, tenendo conto delle misure di progresso alternative al Pil.

L’economia del dopo-crisi dovrà essere basata su prodotti, servizi, processi e modelli organizzativi capaci di utilizzare meno energia, risorse naturali e territorio e di avere effetti minori sugli ecosistemi e sul clima. Tutto questo si è già tradotto in impegni internazionali del nostro paese: al G8 dell’Aquila del 2009 l’Italia ha promesso di ridurre dell’80% (rispetto ai valori del 1990) entro il 2050 le emissioni di gas – come l’anidride carbonica – che alimentano il riscaldamento del pianeta, ma finora le politiche non hanno dato seguito a questi obiettivi. Sono ormai molte le elaborazioni su come realizzare, nei diversi ambiti, i cambiamenti necessari per una maggior sostenibilità: riassumiamo qui alcune misure concrete.

 

Energia: meno consumi, più rinnovabili. Il risparmio energetico e lo sviluppo di fonti rinnovabili sono due pilastri del nuovo sviluppo. A livello europeo si può fissare l’obiettivo di arrivare entro il 2050 al 100% di elettricità prodotta da fonti rinnovabili. Nel 2011 l’Italia ha installato il 28% dei pannelli fotovoltaici di tutto il mondo, un esempio di successo delle politiche di incentivo che erano state introdotte dal governo Prodi. L’efficienza energetica può crescere molto, anche con gli incentivi presenti in Italia per l’isolamento termico degli edifici. Si può introdurre un piano nazionale per l’efficienza energetica nella pubblica amministrazione e l'abbattimento dell’Iva per l’installazione del solare termico e la detrazione dalla dichiarazione dei redditi delle spese effettuate per l’installazione di pannelli solari per la produzione di acqua calda sanitaria. È poi necessario estendere a tutte le fonti rinnovabili il meccanismo del conto energia previsto dalla legge 387/2003, oggi applicato solo al solare fotovoltaico, differenziando la tariffa incentivante a seconda della fonte, della taglia, della tecnologia e della qualità ambientale. E' necessario prevedere il divieto della produzione e vendita di motori elettrici ad efficienza 2 e 3 e dei frigoriferi di classe B e l'aumento degli obiettivi obbligatori di efficienza energetica a carico dei distributori di energia elettrica e gas per l'ottenimento dei “certificati bianchi”.

 

La mobilità sostenibile. L’epoca dell’automobile è al tramonto. In Italia ci sono oggi 37 milioni di automobili, quasi 5 milioni di autocarri, alcuni milioni di altri veicoli: abbiamo 1,4 veicoli per persona con patente di guida e sulla strade in media si muovono, o sono fermi, 50 veicoli per kilometro. Non c’è da sorprendersi che, con la crisi, le vendite di auto nel 2012 siano cadute del 20% rispetto all’anno prima. È necessario progettare forme di mobilità sostenibile ed efficiente, diverse dal trasporto privato individuale in auto e scoraggiare il trasporto merci di lunga distanza su gomma. Queste attività richiedono un grande programma di investimenti pubblici che può guidare una nuova qualità dello sviluppo locale.

A scala urbana è necessario pensare ai modelli di smart cities, servono nuove ferrovie metropolitane, il potenziamento dei trasporti collettivi, piste ciclabili, car sharing, taxi collettivi, piani urbani della mobilità e della logistica. È fondamentale il rilancio e la riforma del trasporto pubblico locale con servizi integrati su scala metropolitana e con il potenziamento dei servizi ferroviari sulla media e corta distanza, dove si concentra l’80% dell’utenza, attraverso consorzi interistituzionali al servizio della città diffusa. Bisogna promuovere l'utilizzo più razionale delle infrastrutture esistenti, in particolare attraverso reti ferroviarie suburbane in tutte le aree metropolitane, capaci di estendere, con spesa relativamente limitata, il raggio d’azione del trasporto urbano per 30-40 km dai poli centrali. È necessaria la revisione dell’approccio alla progettazione della rete stradale primaria, mirando meno alle velocità di punta garantite dai tracciati (poco utili per un traffico di distribuzione) e più alla capacità offerta, soprattutto nei nodi maggiormente congestionati, nonché alla facilità di accesso/uscita da parte del traffico locale. Il trasporto privato individuale nei centri urbani dev’essere limitato, anche tramite l’applicazione di tariffe sull’uso dell’auto (transito, sosta, accesso). Per le automobili, occorre incentivare le modalità di trasporto meno inquinanti, promuovendo i veicoli elettrici, a metano e gpl.

 

Le piccole opere. Di fronte ai faraonici programmi di “grandi opere” che richiedono un’enorme spesa pubblica e portano a pochi benefici sociali e molti danni ambientali, occorre lanciare programma di “piccole opere” che riguardi interventi integrati – ambientali, infrastrutturali, urbanistici, sociali – che possono andare dalla messa in sicurezza del territorio a rischio idrogeologico, al risanamento di aree urbane degradate, dalla messa in sicurezza delle scuole che non rispettano le normative antisismiche e antincendio, alla sistemazione della rete idrica locale, dal recupero urbanistico dei piccoli centri dell'Appennino, al risanamento ambientale di coste e aree montane. Ovviamente tra queste “piccole opere” destinate a migliorare la qualità dello sviluppo non rientrano progetti legati a modelli sbagliati come nuove superstrade, nuovi parcheggi o porti turistici. Possono essere utilizzati a questo scopo – come ha fatto il ministro Fabrizio Barca per alcuni interventi nel mezzogiorno – i fondi già previsti dal Cipe per le piccole e medie opere e i finanziamenti europei, soprattutto nel sud.

 

La riconversione delle produzioni. In molte attività produttive – dalla chimica all’acciaio, dalla meccanica alle costruzioni - è possibile progettare un percorso di riconversione ambientale che utilizzi nuove tecnologie e processi produttivi sostenibili sul piano della qualità del lavoro e degli effetti ambientali, imitando molte esperienze già realizzate in Europa. L'industria delle costruzioni può andare nella direzione di bioedilizia e ecoefficienza; invece di cementificare le città e “consumare suolo” nelle campagne, si può puntare alla riqualificazione dei centri storici, delle periferie degradate, delle aree suburbane. L'agricoltura deve essere indirizzata verso la filiera corta, il “chilometro zero” e le produzioni biologiche. Il patrimonio paesaggistico e le “aree protette” possono essere valorizzate da un turismo responsabile. Si possono sviluppare “distretti dell'economia verde” insieme alle nuove forme di “altra economia”. C’è poi la questione dei rifiuti, spesso irrisolta nelle grandi città italiane. Qui la strada dev’essere riorganizzare l’intero ciclo di vita delle merci in modo da avvicinarsi all’obiettivo di “rifiuti zero”, favorire il recupero e riuso dei materiali, moltiplicare gli impianti di riciclaggio al posto di inceneritori e discariche.

 

Come finanziare la transizione ecologica. Quest’insieme di iniziative metterebbe l’Italia sulla via della sostenibilità, ma richiede anche grandi risorse: investimenti pubblici su ambiente, città, infrastrutture leggere; investimenti privati su nuovi sistemi produttivi; maggiori costi da sostenere per alcune attività. Si tratta di un programma che potrebbe stimolare una grande domanda nell’economia del paese, facendo ripartire lo sviluppo e indirizzandolo verso produzioni e lavori di qualità. Ma come si può finanziare questa transizione ecologica?

Innanzi tutto, le tasse ambientali possono “correggere” i prezzi dei beni che danneggiano l’ambiente e spingere produttori e consumatori a comportamenti più sostenibili. Per i conti pubblici, quest’imposizione può generare entrate per diversi miliardi di euro l’anno che possono essere destinati ai programmi di riconversione sopra descritti. Questa scelta strategica porta a una rapida crescita di nuove attività economiche capaci di attrarre grandi investimenti privati – è già successo in Germania e nei paesi del nord Europa che hanno incoraggiato nuove attività economiche sostenibili. E una nuova generazione di politiche industriali “verdi” può indirizzare le scelte produttive delle imprese (www.giuliomarcon.it,  www.novesudieci.org).

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