UNIVERSITÀ E SCUOLA

Valutazione dei docenti: negli Stati Uniti fa acqua

Quello della valutazione della didattica da parte degli studenti è diventato ormai un rituale consolidato di fine semestre per i professori universitari americani. Una tradizione ormai data per scontata, ma il cui impatto sulla qualità dell’insegnamento è tutt’altro che chiaro. Tant’è che ci si comincia a domandare se serva effettivamente a qualcosa o se sia piuttosto controproducente, almeno in alcuni casi.

Negli Stati Uniti questo sistema è pervasivo. “Tutti ne fanno uso – dice Nate Kornell, professore di Psicologia cognitiva al Williams College in Massachusetts – Talvolta le università seguono, in aggiunta, anche altri metodi, ad esempio facendo osservare ad amministratori o altri professori le lezioni di un docente. Altrimenti le valutazioni degli studenti sono l’unica misura della qualità dell’insegnamento”. Il che significa che le risposte date dagli universitari, spesso in fretta e distrattamente, ai questionari distribuiti tra essi a conclusione dei corsi giocano un ruolo fondamentale nel guidare le decisioni di un ateneo in fatto di assunzioni, licenziamenti e promozioni.

Va detto che, siccome il mondo accademico americano è diviso in università dedite soprattutto all’insegnamento e università in cui è la ricerca a contare sopra ogni altra cosa (fanno parte di questo secondo gruppo i nomi più prestigiosi, da Harvard a Princeton), le conseguenze dei voti dati ai docenti dagli studenti variano molto da college a college. Esse sono naturalmente più pesanti nel primo caso, mentre contano assai meno nel secondo. Ad ogni modo, una categoria di professori in particolare, già vessata in mille altri modi, ne soffre più di tutte le altre: quella degli adjunct, o professori a contratto. I quali, oltre che guadagnare pochissimo, rischiano anche che i propri contratti non siano rinnovati in caso di valutazione negativa. Questo mentre i professori di ruolo, soprattutto nelle università di ricerca, possono sedere sugli allori, non preoccupandosi per nulla della propria performance in aula.

Oltre che a colpire la componente già più fragile del corpo docenti, le conclusioni che si estrapolano dall’attuale sistema di valutazioni degli studenti sono spesso inaccurate se non addirittura fuorvianti. Ad esempio perché i questionari sono troppo vaghi; perché le risposte vengono date in maniera anonima (e dunque gli studenti non sono investiti di grande responsabilità); perché il campione di partecipanti, che è determinato su base esclusivamente volontaria, è insufficiente a livello numerico o non realmente rappresentativo di tutti coloro che hanno frequentato un determinato corso. E ancora, come comprovato da varie ricerche, perché il carisma di un insegnante, la caratteristica che solitamente produce le valutazioni migliori, non conta quanto all’impatto reale dell’insegnamento. “Ciò che piace non è necessariamente ciò che è giusto – dice Kornell – I professori che stimolano i propri studenti con concetti e compiti difficili vengono talvolta puniti anche se, in pratica, gli studenti imparano di più da essi”.

Uno studio condotto recentemente da ricercatori di North Carolina State University ha rivelato, inoltre, che le valutazioni possono diventare anche un veicolo di discriminazione. Per arrivare a tale risultato, i ricercatori hanno preso due insegnanti, un uomo e una donna, e hanno chiesto loro di condurre due lezioni on line a testa (strutturate in modo che essi non rivelassero né il proprio volto né la propria voce).  In un caso, i due hanno dichiarato il proprio sesso reale mentre nell’altro hanno fatto finta di appartenere a quello opposto. Ebbene, entrambi hanno ottenuto più punti quando si sono presentati come uomini.

Cosa fare dunque? Anche i critici del sistema non sostengono che si debbano necessariamente eliminare completamente le valutazioni degli studenti. “Non mi risulta che ci siano studi che dimostrano che i professori che non si devono preoccupare del parere degli studenti insegnino meglio – dice Kornell – Da professore, sapere che ti stanno giudicando ti spinge a lavorare di più”. Il problema, in generale, è che per determinare davvero la qualità dei docenti bisognerebbe misurare esattamente quanto gli studenti imparano dall’uno piuttosto che dall’altro. Ma calcolare l’impatto del processo di insegnamento sull’apprendimento di un individuo, escludendo tutti i fattori secondari, come ad esempio la famiglia di provenienza o l’interesse di un singolo studente rispetto a una determinata materia, è compito assai arduo. Anche perché i professori progettano le proprie domande di esame in maniera indipendente, quindi neanche i voti ottenuti dagli studenti sono per forza indicativi di quanto essi hanno realmente imparato.  “Penso la soluzione sia di affiancare le valutazioni degli studenti a quanti altri criteri possibili – conclude Kornell – Quello che manca oggi, in particolare, è il giudizio di esperti altamente qualificati”. Kornell è del parere, quindi, che sarebbe utile avere di tanto in tanto in classe un secondo docente, che lui chiama “Master teacher”, che possa verificare di persona la qualità dell’insegnamento e, eventualmente, consigliare al professore sotto osservazione come migliorarla.

Valentina Pasquali

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