SCIENZA E RICERCA

Cuore e fegato su chip, con "nome e cognome"

Una delle conseguenze più importanti potrebbe essere l’avvio di una medicina personalizzata, lo sviluppo di terapie calate sui bisogni specifici del singolo paziente. Ma non solo. Potrebbe essere possibile anche testare farmaci in laboratorio a basso costo e in tempi rapidi, ovviando oltretutto al problema che gli animali cui si ricorre nella sperimentazione possono avere una risposta fisiologica differente da quella umana. Tutto questo potrebbe avvenire grazie a organi umani su chip cui è possibile dare un nome e un cognome. A spiegarlo è Nicola Elvassore, docente del dipartimento di Ingegneria industriale e coordinatore di uno studio pubblicato recentemente su Nature Methods che ha portato alla realizzazione di un fegato e un cuore su dispositivi tecnologici miniaturizzati attraverso l’impiego di cellule staminali pluripotenti indotte del paziente. 

“Tessuti su chip già ne esistono – precisa il docente – ma sono soprattutto di origine animale. Modelli umani ce ne sono pochi e da paziente specifico nessuno”. Per capire meglio di cosa si tratta è necessario abbandonare l’immagine tridimensionale che normalmente si associa alla parola “organo” e ragionare piuttosto in termini di funzione. Gli scienziati hanno testato un metodo che permette di espandere cellule staminali pluripotenti indotte del paziente all’interno di una rete di microcanali situati in un chip e di farle differenziare, attraversando tutte le fasi dello sviluppo, fino a diventare epatociti o cardiomiociti, rispettivamente cioè cellule del fegato e del cuore. Si tratta dunque di una struttura bidimensionale che ha tuttavia proprietà molto simili a quelle di un tessuto adulto maturo e che riproduce i comportamenti tipici del fegato o del cuore, sebbene non tutti. Elvassore spiega che finora gli studi erano stati condotti utilizzando in larga parte biopsie che non consentono le stesse possibilità di ricerca delle staminali pluripotenti. Queste infatti permettono di “generare lo stesso paziente migliaia e migliaia di volte” in un ambiente piccolo e controllato e di svolgere l’analisi di un numero elevato di combinazioni sperimentali. E rende possibile altresì mimare la funzionalità epatica e cardiaca, nel caso specifico, sia in condizioni di salute che di malattia, l’ideale per testare una terapia. In particolare il gruppo di ricerca utilizzando il tessuto epatico integrato nel chip ha verificato il grado di tossicità del paracetamolo in tempi e dosi diverse e il risultato correlava bene le osservazioni su pazienti.   

“Quello che stiamo dimostrando – sottolinea Elvassore – è che un fegato o un cuore ottenuti con questo metodo possono rappresentare un buon modello di studio. E ritengo che nei prossimi anni si potrà passare da un modello semplice come il nostro a uno più complesso e avere dunque comportamenti cellulari sempre più vicini a un organo vero e proprio”. 

Per capire l’importanza che queste metodologie possono avere nello sviluppo di nuove terapie personalizzate, Elvassore illustra un progetto  che riguarda la sperimentazione di farmaci per il trattamento del deficit di alfa 1 antitripsina (Drug testing for liver disease in alpha-1 antitrypsin deficiency by a large-scale patient-specific hiPS cell library), sottoposto a una fondazione che si interessa di malattie rare in ambito pediatrico e attualmente in fase di valutazione. La patologia, dovuta a una mutazione del gene che codifica questa proteina, in alcuni casi può portare a un accumulo della proteina stessa nel fegato tanto da produrre una forma di tossicità. Questo nei casi più gravi rende necessario un trapianto di fegato nel giro di due, tre anni dalla nascita. “Attraverso il metodo messo a punto – spiega il docente – abbiamo già dimostrato che, utilizzando cellule staminali pluripotenti indotte di un paziente con questo tipo di patologia, possiamo osservare l’accumulo della proteina e dunque lo sviluppo della malattia. Ora sarebbe possibile fare una serie di test utilizzando molti tipi di farmaci per rilevare quale sia quello che può ridurre l’accumulo della proteina e permettere al paziente, se non di guarire, di dilatare il tempo necessario al trapianto o comunque di vivere nelle migliori condizioni di salute possibili”. Ma per proseguire in questa direzione sono necessari i finanziamenti.  

L’interesse per questo ambito di studi e per un approccio interdisciplinare che unisce l’ingegneria alla biologia ha la sua genesi in un’esperienza condotta da Elvassore nell’ambito del programma Fulbright al Harvard-Mit Health Science and Tecnology. Un istituto che vede la collaborazione del Massachusetts Institute of Technology (Mit), della Harvard Medical School, della Harvard University e delle cliniche universitarie della zona di Boston e integra biologia, medicina e ingegneria per proporre soluzioni in ambito sanitario. “Mi sono ispirato proprio a quella struttura per creare BioERA, un laboratorio cui partecipa il dipartimento di Ingegneria industriale dell’università di Padova e l’Istituto veneto di medicina molecolare (Vimm)”. 

Il gruppo di ricerca è giovane e composto da metà ingegneri e metà biologi e biotecnologi, una ventina di persone in tutto. Allo studio pubblicato su Nature Methods, pur con il sostegno dell’intero laboratorio, hanno lavorato in particolare Giovanni Giobbe e Federica Michielin, assegnisti di ricerca che alle indagini hanno dedicato gli ultimi quattro anni. “C’è molto ricambio nella struttura – sottolinea Elvassore – e questo mi fa piacere perché significa che i ragazzi riescono a trovare impiego all’esterno dell’accademia soprattutto a livello industriale, dove esiste la necessità di personale con formazione interdisciplinare”. 

Monica Panetto

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