SOCIETÀ

Dalla folla allo sciame: le avventure dell’homo digitalis

Chi comanda in una comunità? Chi ha il potere di decidere dello stato di eccezione, scriveva Carl Schmitt. Adesso cerchiamo di applicare il ragionamento a quell’organismo complesso e acefalo che è la rete. Chi comanda internet? “Sovrano è colui che dispone delle shitstorms”, sentenzia il filosofo Byung-Chul Han nel suo Nello sciame. Visioni dal digitale, appena tradotto da Nottetempo (Roma 2015). Postilla: il termine Shitstorm designa quell’ondata critica che si sprigiona sulla rete intorno a un determinato argomento, caratterizzata dal linguaggio aggressivo e violento, e nel 2012 è stato scelto da un’apposita commissione di linguisti tedeschi come “anglicismo dell’anno”.

Le folate di indignazione massiva, scrive lo studioso coreano che vive e insegna in Germania, sono una delle forme di interazione più caratteristiche del web. Se protagonista del XX secolo è stata la folla (come scrive Gustave Le Bon in Psicologia delle folle, uscito nel 1895), il XXI secondo Han sarà caratterizzato dallo schema dello sciame: un’entità in cui più persone – o profili, meglio ancora utenti – agiscono insieme, ciascuno però conservando l’impressione della propria individualità. Un modello nuovo di comunicazione simmetrica in cui però manca, sempre secondo l’autore, il Geist: la condivisione di uno spirito, un’anima comune. Per questo nello sciame prevalgono gli stati d’animo rispetto alla razionalità, l’indignazione piuttosto che il confronto, l’insulto invece del rispetto. Sensazioni la cui fugacità, secondo Han, “non genera energie politiche”.

Il problema, oggi oggetto di diversi studi e libri divulgativi, è quello di arrivare a capire fino a che punto le tecnologie della comunicazione stiano cambiando la nostra essenza di persone e di cittadini. Se già secondo il celebre sociologo della comunicazione Marshall McLuhan c’era stato un passaggio dall’homo sapiens all’homo electronicus, Byung-Chul Han teorizza la nascita di un homo digitalis, sempre più connesso ma paradossalmente sempre più estraniato. Ricostruzione affascinante e per nulla isolata, che però lascia spazio a qualche dubbio. Dal racconto della torre di Babele fino al mito del “buon selvaggio” di Rousseau, la riflessione sulla civiltà, quindi anche sulle tecnologie, coincide da sempre con quella sulla perdita della naturalità. Ma, al di là di rimpiangere mitiche età dell’oro, i modi e le tecniche della comunicazione incidono da sempre sulla nostra evoluzione, a cominciare dall’invenzione della scrittura. E mai finora in maniera esclusivamente negativa. 

Ora lo stesso Han ricorda come Martin Heidegger considerasse con sospetto la scrittura a macchina, dato che “ci allontanava dall’Essere” e che “occultava l’essenza dello scrivere e della scrittura, sottraendo all’uomo la dignità essenziale della mano”. Il web si inserisce nella normale evoluzione culturale, oppure in qualche modo la scompagina? Nel tentativo di rispondere è interessante affiancare alla prospettiva filosofica quella storica. Nell’evoluzione dei sistemi di comunicazione, sottolineano per esempio Gabriele Balbi e Paolo Magaudda in Storia dei media digitali (Laterza, Bari-Roma 2014), non ci sono solo rivoluzioni ma anche e soprattutto continuità. E il senso di continua meraviglia e di smarrimento provocato dal web non deve farci dimenticare che nella digitalizzazione convergono almeno due fenomeni: lo sviluppo dei mass-media, che risale all’800, e l’informatizzazione, che ha inizio nella prima metà del ‘900. In realtà, scrivono gli studiosi quasi ad alleggerire lo strato di ansia che a volte circonda questi argomenti, “L’enfasi sulla natura ‘rivoluzionaria’ dei media digitali è solo l’ultimo esempio della tendenza a ricostruire il cambiamento della società attraverso cesure repentine”.

Questo ovviamente non significa, scrivono gli autori, che i media digitali e in particolare la rete non siano fenomeni ricchi di implicazione sociali e anche politiche. Basti pensare a come ad esempio i social media abbiano influito sul successo della cosiddetta “Primavera araba” oppure sulle moderne strategie elettorali, fino al fenomeno dei cosiddetti partiti di internet, come il Partito Pirata nel Nord Europa e in Germania e il Movimento Cinque Stelle in Italia. Questo perché soprattutto la rete negli ultimi anni sta incidendo profondamente sul modo in cui si forma l’opinione pubblica, dettando agende e contribuendo a sviluppare nuove tematiche e sensibilità. Se agli albori dell’età dei computer molti scommettevano sullo sviluppo dell’intelligenza artificiale, la novità degli ultimi anni è rappresentata dall’intelligenza collettiva, scrive il giornalista e saggista Luca De Biase (Homo pluralis. Essere umani nell’era tecnologica, 2015 Codice edizioni, Torino): un sistema in cui smartphones, software ed esseri umani si integrano in maniera tanto inestricabile da formare una sorta di super computer, di cui ognuno costituisce un singolo snodo. Realtà sempre più complessa e rischiosa, ma che presenta anche delle opportunità. De Biase cita il filosofo Pierre Lévy, che già nel 1994 scriveva di un’intelligenza “distribuita ovunque, valorizzata incessantemente, coordinata in tempo reale, che arriva a una mobilitazione efficace delle competenze”. Lo sciame insomma non è necessariamente peggio della massa, data la sua natura intrinsecamente plurale che “non appiattisce gli individui sulla struttura omogeneizzante della piattaforma”.

La rete quindi è democratica o totalitaria, collaborativa o conflittuale? Alla fine la questione è, ricordando il pensiero di Michel Foucault, se il web sia fondamentalmente uno strumento di libertà o di controllo, se contribuisca maggiormente a realizzarci oppure ad alienarci. Nel timore di quella che Byung-Chul Han chiama psicopolitica digitale, in cui tutte le nostre azioni possono essere previste, quindi manovrate, dalle grandi aziende digitali come Google e Facebook, grazie alla mole infinita delle informazioni in loro possesso. Informazioni che per lo più siamo noi stessi a fornire volenterosamente. Un potere sempre più invisibile, e in quanto tale penetrante, in cui tutti siamo allo stesso tempo sorveglianti e sorvegliati.

Daniele Mont D’Arpizio

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