SOCIETÀ

Guerra, l’archeologia rischia la sconfitta

Vasellame, statuine, gioielli, monete, sculture. Trafugate in Siria e Iraq, immensi forzieri colmi di ricchezze antiche e archeologie monumentali, attraversano la Turchia o il Libano per arrivare nelle mani dei mercanti d’arte occidentali. Non solo piccoli oggetti  facilmente occultabili, ma anche manufatti di  grandi dimensioni, il cui commercio clandestino richiede una rete di contatti ben salda e sicura. È un meccanismo ormai rodato, che la guerra in Iraq prima e i conflitti siriani poi hanno però rinsaldato, includendolo anche nel diversificato piano di finanziamento all’Isis. 

Petrolio, patrimonio culturale, rapimenti, donazioni esterne, banche, armi, internet: queste le principali fonti di finanziamento a Daesh e Fronte Al -Nusrah per cui il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha espresso preoccupazione, in una risoluzione che esorta gli stati membri  a contrastare il terrorismo attraverso il taglio di ogni possibile fonte di sostegno economico. In particolare si afferma la necessità di intraprendere “azioni appropriate per prevenire il commercio in Iraq e Siria delle proprietà culturali e di qualsiasi altro oggetto di importanza archeologica, storica, culturale, rarità scientifica e religiosa illegalmente rimossa dall’Iraq a partire dal 6 agosto 1990 e dalla Siria dal 15 marzo 2011…”

Solo nell’ultimo anno sono stati infatti devastati il Museo di Mosul, il sito archeologico dell’antica capitale assira Ninive e quello di Nimrud, città sul fiume Tigri fondata nel XIII secolo prima di Cristo; a novembre è stata decretata la fine di Palmira e l’anno si è chiuso con l’ennesima profanazione di antiche lapidi a Mosul. Ma nella devastazione continua il lavoro degli “archeologi militanti”: fra questi si schiera, accomunando la propria missione a quella di molti colleghi, Daniele Morandi Bonacossi, professore associato a Udine di archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente antico  e dal 2012 direttore della missione archeologica italiana “Terra di Ninive”, progetto di ricerca che mira a studiare il paesaggio archeologico della regione di Dohuk, nel Kurdistan iracheno. 

L’area dello studio si estende nell’entroterra dell’antica capitale dell’impero assiro, Ninive. Quella città, un tempo sede degli splendori della Mesopotamia, è oggi conosciuta come Mosul, come luogo di orrori e contese militari strategiche. Eppure, nonostante la città sia oggi controllata dall’Isis, secondo Morandi Bonacossi è ancora possibile lavorare nel suo entroterra: “L’anno scorso siamo stati evacuati quando ci sono stati l’attacco dell’Isis al Kurdistan e i successivi bombardamenti angloamericani. Quest’anno invece la situazione è molto migliorata: il fronte dell’Isis a nord di Mosul si è molto depotenziato e la situazione è più tranquilla, tanto da permetterci di lavorare per due mesi e mezzo quest’inverno e per altrettanto tempo quest’estate”.

La missione italiana non si occupa solo di scavi e ricognizioni, ma ha avviato il censimento di tutti i siti archeologici della regione a ridosso del confine, avvalendosi anche della collaborazione di esperti locali, ai quali dedica percorsi di formazione ad hoc. “Quella in cui lavoriamo è un’area esposta alla devastazione: è quindi molto importante catalogare e documentare tutto questo patrimonio. E coinvolgere la popolazione locale, principale tutore dei beni culturali”.

Secondo alcune inchieste giornalistiche, molti reperti archeologici destinati al commercio clandestino vengono trafugati direttamente nei siti archeologici, che in quella zona hanno la caratteristica di essere aperti e molto visibili: il paesaggio archeologico di tutto il Vicino Oriente è infatti punteggiato da collinette chiamate tell, alte anche 40 metri, frutto della stratificazione millenaria di insediamenti successivi. In quei luoghi, dunque, gli archeologi non portano alla luce siti prima sconosciuti, precisa Morandi Binacossi: “Noi censiamo e cataloghiamo i siti, registriamo i più esposti alle distruzioni e li segnaliamo alle autorità competenti. In questo senso non li rendiamo vulnerabili, perché già lo sono. È possibile per chiunque scavare in maniera clandestina e illegale e trovare qualcosa. Come è successo a me, credo sia nell’esperienza di ogni archeologo notare la presenza di scavi clandestini fatti durante il periodo di sospensione delle attività ufficiali”.

Per mettere freno al commercio illegale di opere trafugate, l’estate scorsa l’FBI ha allertato collezionisti d’arte e venditori. A dicembre Italia, Francia e Germania di sono unite per sollecitare la Commissione europea a intraprendere misure per contrastare l’importazione illegale di beni culturali; già a marzo la Farnesina annunciava la costituzione di un gruppo di lavoro sul contrasto al finanziamento dell’Isil.

“In Italia ci sono molte iniziative, a volte forse poco coordinate fra loro”, spiega Morandi Bonacossi, che collabora con il nucleo dei carabinieri di Venezia, dal quale viene convocato soprattutto in occasione di sequestri di materiali archeologici provenienti dal vicino Oriente. “In Italia ci sono sempre stati tentativi di commercio clandestino di reperti archeologici. Il nostro, però, non è uno dei principali paesi coinvolti in questo traffico, che interessa soprattutto quelle nazioni nelle quali il commercio d’arte muove volumi d’affari considerevoli”. In Europa si parla quindi di Svizzera, Germania, Inghilterra; fuori dal nostro continente sono interessati i Paesi del Golfo, gli Stati arabi, il Kuwait, e piazze internazionali come Hong Kong, Stati Uniti, Giappone. L’Italia, di per sé ricca archeologicamente, è invece priva di un mercato d’arte florido. “Ma niente ormai è più florido in Italia”, conclude sorridendo l’archeologo. 

Chiara Mezzalira

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