CULTURA

Jean Dubuffet. La natura evocativa del segno

Inginocchiato a terra, Jean Dubuffet premeva la carta inchiostrata al suolo; prendeva l’impronta dell’asfalto, delle sabbie, della pietra, di tutte le superfici su cui s’imbatteva. Poi trasferiva i segni dal foglio alla lastra litografica e li elaborava con processi diversi; così attraverso la polverizzazione, l’irrigazione o l’emulsione di liquidi sulla lastra, generava effetti imprevedibili. Secondo le sue intenzioni iniziali quelle tavole avrebbero dovuto diventare il materiale di base per creare poi assemblages. In esse, invece, riconobbe presto la carica espressiva di opere a sé stanti, e perciò vi si dedicò con passione fra il 1958 e il 1960: per quattro anni raccolse le impronte, le elaborò e titolò l’oggetto finale. Una “massa di lavoro straordinaria” la definì lo stesso Dubuffet, artigianale e allo stesso tempo concettuale: perché, spiega Nicola Galvan, curatore della mostra Jean Dubuffet. Il teatro del suolo, in questi giorni al Giardino della biodiversità di Padova, l’atto creativo si sviluppò soprattutto nel rinominare, nel riconoscere quei segni sulle lastre. La roccia diventò aria, la sabbia si tramutò in vento, il suolo si fece generatore di tutti i fenomeni naturali, i Phénomènes. I segni, pure astrazioni dell’esistente, interpretati e rinominati, ridiventarono realtà, rivestendosi di una natura diversa. Il suolo macchiato di bianco diventò Cielo stellato, la sua impronta grigia sfumata si trasformò in Acqua radiosa. Dubuffet diede corpo a “un immenso atlante dei fenomeni della natura”, secondo Sophie Webel, della Fondazione Jean Dubuffet.

Le tavole dei Phénomènes di Dubuffet in mostra all’Orto Botanico di Padova. Foto: Massimo Pistore

Eppure, osserva Nicola Galvan, “nelle 324 tavole dei Phénomènes, noi non ci siamo”. L’uomo non c’è. Non c’è la nostra figura, ma qualcosa, una nostra traccia, sussiste. Rimangono il pensiero, l’impronta, le Trasmissioni, il Sangue, la Carne del suolo, che rivelano un’umanità silenziosa, testimone di una narrazione di cui facciamo parte senza esserne i protagonisti. Al centro sta invece la Strada terrosa che genera un’enorme quantità di suggestioni, di fenomeni terreni e spirituali, di roccia, acqua, vento, cielo, e poi bulbi, foglie, ombra e luce, mare. Ma anche ricordo, oblio, silenzio. “La più poeticamente normale cantica in gloria del creato” la definì Lorenza Trucchi nel catalogo dell’esposizione a Palazzo Grassi “Les Phénomènes di Jean Dubuffet”, nel 1964. La mostra veneziana fu l’ultima occasione, 51 anni prima della mostra padovana, in cui questi lavori vennero esposti integralmente: 22 portfolio, ciascuno presentato come opera a sé, ciclo espressivo completo e omogeneo. Di questi, 13 portfolio sono composti da 18 tavole interamente in bianco e nero e rappresentano soprattutto la prima fase del lavoro di Dubuffet, a partire dalla raccolta dell’aprile del ’58 L’elementare, titolo emblematico che descrive la sfera primaria alla quale si rivolgeva l’attenzione dell’artista ormai da qualche tempo. Sempre in bicromia sono le tavole del portfolio Teatro del suolo, uno dei più significativi dell’intero ciclo dei Phénomènes perché incarna chiaramente il ripiegarsi dell’artista verso il suolo, fino a farsi terreno, fino a sprofondare in esso. Un suolo del quale quasi si percepiscono gli strati geologici nell’implosione di una tridimensionalità in cui la tradizionale visione prospettica si azzera, perché azzerato è il punto di vista umano; l’umanità si recupera nel legame profondo e ancestrale con i fenomeni naturali, dei quali non è spettatore ma dei quali fa invece parte.

Il portfolio “Teatro del suolo”, 1958; mostra all’Orto Botanico, Padova. Foto: Massimo Pistore

Ai portfolio in bianco e nero si aggiungono, a partire dal 1959, nove raccolte di dieci tavole a colori ciascuna. Qui Dubuffet sperimentò le proprietà alchemiche del colore, in grado di tramutare in terra quello che in bianco e nero era acqua, e in aria quello che era terra. Il lavoro si fa via via più raffinato, più elaborato, fino a contare decine di passaggi di colore, fino a negare la cromia stessa e dare vita a non-colori evanescenti, tavole preziose alla cui elegante artigianalità si sovrappone un importante lavoro concettuale. Dubuffet rinomina la realtà, la concretezza, l’oggi, il qui, astraendola, trasformandola e reinterpretandola. Come ancora sottolineava Lorenza Trucchi, “Dubuffet non propone cose preziose, né rare, né difficili, ma insistentemente egli offre, invece, i temi di una dimessa festa quotidiana”. Non a caso, ode all’ovvio divenuto straordinario attraverso una ricerca serrata e coerente, il titolo che dà a uno dei suoi ultimi portfolio è proprio Banalità.

Chiara Mezzalira

Jean Dubuffet, foto di John Craven. Archives Fondation Dubuffet, Parigi

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