SOCIETÀ

Jobs Act: perché non è decisivo per l’occupazione

Il Jobs Act, la riforma del lavoro tanto voluta dal governo Renzi, è da giorni sulla bocca di tutti alimentando le più svariate opinioni sui decreti attuativi, vero cuore della riforma. Resta comunque la difficoltà di distinguere le norme dalle dichiarazioni programmatiche, gli obiettivi dalla realtà dei fatti, per capire davvero come cambierà il mercato del lavoro. Una spiegazione cerca di darla Ugo Trivellato, professore emerito di statistica economica all’università di Padova, intervistato da Il Bo.

Cosa pensa in generale del Jobs Act? Può davvero essere uno strumento per tornare a far crescere l'occupazione?

Le leggi che regolano il mercato del lavoro possono migliorarne il funzionamento. Ma in Italia la mancata crescita dell’occupazione dipende soprattutto dalla carenza di domanda da parte del sistema produttivo. Ciò vale anche per il Jobs Act. Può favorire un processo di ripresa dell’occupazione, ma non può esserne il fattore decisivo. 

Nel merito, il Jobs Act – una legge delega – si distingue per novità decisamente positive, ma anche per la vaghezza con cui delinea i «princìpi e criteri direttivi». Fatte salve poche indicazioni circostanziate, «su importanti e vasti ambiti del diritto del lavoro» esso enuncia orientamenti così generali che occorrerà attendere i decreti legislativi per conoscere il vero volto della nuova disciplina del lavoro.

Stranamente, nel primo Decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri si parla soprattutto di licenziamenti. Come mai?

Il primo decreto legislativo, «recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti», ha un titolo fuorviante.Neppure una riga è dedicata specificamente a tale contratto. Il testo definisce la nuova regolamentazione dei licenziamenti per l’insieme dei nuovi assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (e, ritengo, anche per quelli assunti con contratto a tempo determinato licenziati anzitempo). Difficile capire il perché della bizzarra titolazione. Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti sarà disciplinato – penso – in un prossimo decreto riguardante la revisione delle tipologie contrattuali.

Come valuta, nel merito, la nuova regolamentazione dei licenziamenti?

Il decreto innova la disciplina sui licenziamenti, restringendo la reintegrazione del lavoratore a quelli discriminatori (e assimilati) e allo specifico caso di licenziamenti disciplinari ingiustificati. Negli altri casi prevede un risarcimento economico a carico del datore di lavoro, fissato pari a 2 mensilità per ogni anno di servizio e comunque entro l’intervallo fra 4 e 24 mensilità. Restringe dunque, in notevole misura, la portata dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Con quali conseguenze?

A mio avviso, i punti critici del decreto sono due. Il primo attiene al basso tetto dell’indennità risarcitoria, incongruo rispetto al criterio di due mensilità per anno di servizio enunciato giusto due righe prima. Infatti, 24 mesi corrispondono a 12 anni di anzianità. Per il lavoratore che abbia una storia lavorativa lunga in una stessa impresa ciò si traduce in una forte penalizzazione.

E dubbi suscita la norma sulla risoluzione di controversie in merito al licenziamento per motivi disciplinari. In tal caso, il lavoratore otterrà il reintegro quando «sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento». L’ultima affermazione è sconcertante perché in aperto contrasto con un principio generale: la proporzionalità della sanzione alla violazione. 

Quali e quanto ampi sono i margini di applicazione delle nuove norme in materia di licenziamenti collettivi?

Il decreto estende in toto la nuova disciplina ai «licenziamenti collettivi». Su tale estensione non vedo ragioni per obiezioni, salva un’essenziale precisazione. Serve ricordare che i «licenziamenti collettivi» sono stati regolati in relazione ai processi di mobilità e a una particolare politica del lavoro – le Liste di mobilità. La fissazione del numero minimo di lavoratori licenziati perché il licenziamento sia con siderato «collettivo» è convenzionale: un’impresa con più di 15 dipendenti deve effettuare almeno cinque licenziamenti nell’arco di 120 giorni. Dal punto di vista sostanziale è rilevante, invece, il motivo che giustifica il licenziamento collettivo: deve riferirsi a un singolo processo di riduzione o trasformazione dell'attività. Il decreto richiama sì la procedura e i criteri ai quali attenersi nella scelta dei lavoratori da licenziare («anzianità di servizio, carichi di famiglia, esigenze tecnico-produttive»), ma solo per negare loro qualsiasi rilievo. Vi è qui una torsione della normativa, che ritengo dilati in misura ingiustificata la discrezionalità dei datori di lavoro. Quella procedura e quei criteri dovrebbero essere, invece, “fatti materiali” la cui sussistenza è richiesta per procedere col risarcimento economico. 

Che idea si è fatto dell'altro Decreto legislativo approvato, ovvero la riforma degli ammortizzatori sociali? Come si armonizzerà con il sistema della Cassa Integrazione Guadagni? Cosa si deve fare sul fronte della formazione al lavoro e del placement?

Il decreto non tratta della cassa integrazione guadagni, che resta dunque com’è. La nuova assicurazione sociale per l’impiego (NASpI), che dal 1 maggio 2015 rimpiazzerà ASpI e mini-ASpI, è, invece, un sostanziale avanzamento verso una tutela universale dei lavoratori dipendenti che abbiano perduto involontariamente l’occupazione. C’è un forte allentamento dei requisiti di ammissibilità e la durata massima è fissata pari alla metà delle settimane di contribuzione degli ultimi 4 anni, dunque a 2 anni. È apprezzabile, poi, che alla componente “passiva” – l’indennità erogata – si affianchino disposizioni in tema di condizionalità. 

Inoltre, in attesa del riordino delle forme contrattuali e dell’auspicabile, chiara distinzione fra lavoro dipendente e lavoro autonomo o imprenditoriale, per i lavoratori co.co.co. che abbiano perduto involontariamente l’occupazione è introdotta in via sperimentale, per il 2015, un’indennità di disoccupazione mensile, denominata DIS-CALL, disciplinata da criteri analoghi a quelli della NASpI, con una durata massima di 6 mesi. 

Il decreto presenta, tuttavia, tre ombre non lievi.

Quali sono?

L’esperienza internazionale insegna che la condizionalità funziona soltanto in un contesto di “obblighi reciproci”: dell’amministrazione pubblica di fornire servizi di orientamento, formazione e placement; dei lavoratori disoccupati di parteciparvi, cercare attivamente lavoro e accettare prontamente un’offerta di lavoro. È irrealistico pensare che i Centri per l’Impiego, oggi molto fragili, possano far valere stringenti condizionalità se non vi sono legittimati dalla fornitura di adeguate politiche attive. Il rischio è che l’allungamento della durata massima della NASpI si traduca in buona parte in allungamento della durata effettiva della disoccupazione con indennità. Con conseguenze negative sulle finanze pubbliche e, forse, sulla propensione dei disoccupati a cercare lavoro, almeno finché non siano prossimi all’esaurimento del diritto all’indennità. Certo, a controbilanciare questo rischio vi sono le disposizioni sull’entità della NASpI: che ha un tetto iniziale di 1.300 euro, ma che dopo tre mesi si riduce del 3% ogni mese, sicché un lavoratore che ne usufruisca per 2 anni finisce per avere un’indennità di poco superiore alla metà di quella iniziale, al più 685 euro. Ma ciò solleva un serio interrogativo, perché l’ammontare finale si colloca sotto le soglie di povertà assoluta dell’Istat anche per la famiglia con un solo componente (Mezzogiorno escluso).

Sorprende, poi, un’altra norma: la durata massima della NASpI è di 2 anni solo per il periodo 1 maggio 2015-31 dicembre 2016; dal 1 gennaio 2017 essa scende a 18 mesi. Non riesco a trovare una ratio per tale differenziazione, se non nella scelta di affrontare i problemi di copertura finanziaria privilegiando la “veduta corta”. 

Infine, il decreto introduce in via sperimentale un’importante novità: l’Assegno di disoccupazione (Asdi), destinato ai beneficiari della NASpI «che abbiano fruito di questa per l’intera sua durata entro il 31 dicembre 2015, siano privi di occupazione e si trovino in una condizione economica di bisogno». Ora, in una condizione economica di bisogno si trovano molte persone che non sono lavoratori, o che se sono tali non hanno potuto godere della NASpI. Il riemergere di una logica categoriale è palese. Sulla questione è intervenuta Chiara Saraceno (La povertà continua a non essere in agenda) con un lucido intervento al quale rimando. Aggiungo un paio di considerazioni.

Ci spieghi meglio.

L’ASDI ha due caratteristiche salienti: (i) il suo ammontare non dipende dal grado di bisogno del nucleo familiare, ma dalla precedente NASpI e quindi dalla precedente retribuzione del lavoratore; (ii) è soggetta a razionamento – c’è un Fondo di 200 milioni di euro per il 2015 e di altrettanti per il 2016.

Quanto al primo punto, anche nel suo ristretto ambito categoriale l’Asdi non configura un equo intervento di contrasto della povertà. Il trasferimento monetario dovrebbe, infatti, portare tutti i nuclei familiari poveri a uno stesso livello di reddito equivalente. Nel caso dell'Asdi può invece accadere, di norma accadrà, che due nuclei familiari con lo stesso bisogno economico ricevano un trasferimento monetario differente.

Quando al secondo punto, la situazione è paradossale. Stante il razionamento, per procedere alla scelta dei nuclei familiari beneficiari il decreto enuncia due criteri contraddittori. Prima afferma che «gli interventi sono prioritariamente riservati a nuclei familiari con minorenni e, quindi, ai lavoratori in età prossima al pensionamento», e rimanda a un decreto del ministro del Lavoro per l’individuazione dei criteri di priorità nell’accesso all'Asdi nel caso in cui il vincolo dello stanziamento diventi operante e imponga quindi il razionamento. Fissa, dunque, una procedura “a bando”. 

Qualche riga dopo il decreto si smentisce e stabilisce che «l’INPS riconosce il beneficio in base all’ordine cronologico di presentazione delle domande». Dunque, la regola diventa “primo arrivato, primo servito”. Si tratta di carenze vistose. E di incongruenze alle quali occorrerà comunque porre rimedio. 

Daniele Mont D’Arpizio

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