UNIVERSITÀ E SCUOLA

Laureati sì, ma senza lavoro e patente

Era l’autunno del 1965 quando il presidente americano Lyndon Johnson firmò l’Higher Education Act, uno dei pilastri della sua Great Society, cioè di quell’agenda di politica interna che mirava a contrastare la povertà e a eradicare le diseguaglianze sociali. Simbolicamente, il presidente scelse di approvare la legge firmandola nell’Aula Magna della Southwest Texas State College, la sua alma mater. Nel discorso ufficiale, Johnson fece ripetuti riferimenti alle difficoltà che incontrò per poter accedere all’università e poi mantenersi negli studi. Non provenendo da una famiglia agiata, il futuro presidente visse in una stanza senza bagno privato né condiviso (si lavava negli spogliatoi del campus sportivo) e oltre a studiare raccoglieva frutta e dava lezioni private a ragazzi messicani che frequentavano la Welhausen Mexican School. Johnson studiò in un’università completamente ‘bianca’ e il suo Higher Education Act di 30 anni più tardi andava a combinarsi con il Civil Rights Act e il Voting Rights Act, altri due epocali provvedimenti che posero fine alla segregazione razziale.

Grazie all’azione legislativa di Johnson, le università statunitensi sono diventate più aperte e diverse e hanno contribuito a far funzionare quell’ascensore sociale che è alla base dell’American Dream. Negli ultimi anni però, questa tendenza sembra essersi fermata e la responsabilità maggiore sembra ricadere proprio su uno dei punti chiave dell’Higher Education Act. Fu infatti la legge quadro di Johnson a introdurre i prestiti studenteschi, decisivi nel permettere l’accesso ai college a tanti studenti meritevoli ma senza il capitale necessario a pagarsi gli studi. L’idea era semplice e ha funzionato per decine di anni: banche e finanziatori autorizzati (poi dal 2010, direttamente ed esclusivamente il governo federale) fornivano allo studente i soldi necessari all’iscrizione e al mantenimento per tutti gli anni di studio. Una volta laureati e ottenuto un lavoro in linea con la laurea ottenuta, quegli stessi studenti si impegnavano per 10 o 20 anni a ripagare interamente il debito a tassi di interesse ridotti.

Già dalla metà degli anni Novanta però, qualcosa è iniziato ad andare storto. La crescita dei salari si è interrotta, il costo della vita è aumentato e sempre meno laureati sono riusciti a raggiungere gli standard qualitativi sperati al momento dell’iscrizione all’università. Di conseguenza, meno laureati sono riusciti a restare al passo con la restituzione del prestito. Già 20 anni fa, il ‘buco’ nelle casse federali e degli enti privati prestatori era superiore al miliardo di dollari. Si decise quindi di mettere in atto politiche più aggressive di recupero crediti. D’altra parte le mancate restituzioni non riguardavano solo banche e finanziarie ma anche il bilancio pubblico, con relativi minori fondi a disposizione della collettività.

A oggi ben 20 stati americani sospendono le licenze lavorative o la patente a chi non è in regola con il pagamento del proprio debito studentesco. Le situazioni variano da stato a stato: in alcuni casi bastano tre mesi di ritardo per innescare la macchina del recupero crediti, in altri servono anni. L’azione è comunque la stessa. Il South Dakota, per esempio, che tra l’altro è un territorio scarsamente urbanizzato, sospende la patente di guida a tempo illimitato. Stati come Texas e Illinois sospendono invece le licenze professionali, facendo di fatto perdere il lavoro a professionisti quali avvocati, psicologi, infermieri, vigili del fuoco, parrucchieri e tutti quei mestieri che richiedono un’iscrizione a un qualche albo statale. L’effetto è spesso paradossale: professionisti che non riescono a pagare i propri debiti vengono puniti perdendo il lavoro, eliminando quindi ogni possibilità residua di riprendere i pagamenti.

Il tema è stato oggetto di un’interessante inchiesta del New York Times che ha cercato di gettare luce su una situazione potenzialmente esplosiva. Secondo il quotidiano newyorchese, il fenomeno sta assumendo contorni sempre più drammatici: in South Dakota oltre 1.500 persone sono attualmente senza patente di guida per via di mancati pagamenti del debito studentesco. In Kentucky, negli ultimi anni, 308 infermieri e 223 insegnanti di scuola primaria hanno visto revocate le loro licenze di lavoro per questo stesso motivo. In Tennessee, si stimano oltre 5.000 sospensioni di licenze professionali negli ultimi 5 anni. Paradosso nel paradosso: per riottenere queste licenze spesso occorre pagare una multa, a volte anche salata, togliendo quindi ulteriori risorse al pagamento del debito ed esponendo di nuovo questi lavoratori a successive sospensioni.

I debiti studenteschi sono secondi solo ai mutui sulla casa per ammontare di denaro non restituito. La questione sta, finalmente, attraendo anche l’attenzione della politica locale e nazionale. Nel 2015, in Montana, una legge bipartisan ha vietato la revoca delle licenze di lavoro e lo stesso è accaduto lo scorso anno sia in New Jersey che in Oklahoma. 

La situazione si è definitivamente complicata quando le autorità governative si sono sostituite a banche e assicurazioni nell’emissione del credito. Senza l’intermediazione degli attori finanziari classici, il recupero crediti si è trasformato in una ‘guerra’ tra ex studenti debitori e tutti gli altri contribuenti. In un’America sempre più diseguale e lontana dagli intenti originari dell’Higher Education Act e della Great Society.

Marco Morini

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