SCIENZA E RICERCA

Agricoltura biologica: gli effetti del gap produttivo

Davanti a una popolazione mondiale che continua a crescere - gli ultimi dati, relativi ad ottobre 2019, stimano che le persone che vivono sulla terra sono circa 7,7 miliardi e secondo le Nazioni Unite nel 2050 si arriverà a quota 9,7 miliardi - l’aumento della produttività agricola sembra un’esigenza imprescindibile, anche in considerazione del fatto che l’espansione dei terreni da dedicare alle culture non può essere infinita. Al tempo stesso, i cambiamenti climatici e il maturare di una maggiore sensibilità nei confronti dell’impatto delle attività umane sul pianeta, hanno condotto a un ripensamento delle tradizionali pratiche agricole e allevatoriali, con l’agricoltura biologica che ha raggiunto i 70 milioni di ettari a livello mondiale e una fascia sempre più ampia di consumatori.

Nella valutazione di quale sia il modello agricolo più sostenibile su larga scala e in grado di garantire cibo a tutto il pianeta, l’analisi del potenziale produttivo dei terreni coltivati in biologico è un fattore chiave su cui si è concentrata l’attenzione di molti scienziati, spesso con esiti diversi a seconda del tipo di coltura preso in considerazione e del territorio di riferimento.

Un recente studio pubblicato su Nature Communications da Adrian Williams, dell’Università di Cranfield, nel Regno Unito, e colleghi dell’Università di Reading, ha evidenziato come i metodi biologici portino a una riduzione del 20% delle emissioni di CO2 nel caso delle coltivazioni e del 4% per gli allevamenti, a fronte però di un calo della produzione del 40%. Il risultato della ricerca è circoscritto al territorio di Inghilterra e Galles, ma il ragionamento di fondo si presta a considerazioni più ampie e porta a ritenere che, se questi due Paesi estendessero il metodo biologico alla totalità dei loro terreni, la necessità di compensare il calo di produzione implicherebbe un aumento delle importazioni di prodotti ottenuti con metodi intensivi in altre parti del mondo, vanificando così l'impatto positivo sull'ambiente. Per evitare questa conseguenza occorrerebbe modificare il fabbisogno alimentare della popolazione e servirebbero significativi cambiamenti nelle scelte nutrizionali, ad esempio una forte riduzione del consumo di carne. 

 

 

Sul tema abbiamo intervistato il professor Roberto Defez, direttore del Laboratorio di biotecnologie microbiche all'Istituto di bioscienze e biorisorse del CNR di Napoli che ha spiegato come l'articolo pubblicato su Nature Communications si ricolleghi a un precedente studio, pubblicato sulla stessa rivista nel 2017 da Adrian Muller e altri collaboratori, che aveva valutato quali sarebbero state le conseguenze entro il 2050 nel caso di una produzione agricola mondiale interamente convertita al biologico. L'articolo, dal titolo "Strategies for feeding the world more sustainably with organic agriculture", era giunto alla conclusione che, prendendo come obiettivo produttivo la media delle rese tra il 2005 e il 2009, l'estensione totale del metodo biologico su scala globale avrebbe comportato un aumento del consumo di terra tra il 16 e il 33%, della deforestazione dall'8 al 15%, dei gas serra dall'8 al 12% e del consumo di acqua del 60%. Il nuovo articolo giunge a conclusioni ancora più estese e ipotizza, nel caso di conversione al biologico della totalità dei terreni di Inghilterra e Galles, la necessità di raddoppiare il numero di ettari coltivati al di fuori del luogo di consumo con un'intensificazione dei trasporti e le relative conseguenze a livello di costi e di inquinamento. 

A livello globale, intanto, gli ettari coltivati a biologico hanno fatto segnare la crescita più grande mai registrata prima. Secondo i dati del rapporto FiBL-IFOAM 'The World of Organic Agriculture 2019', riferiti al 2017, in un solo anno le superfici coltivate con metodo biologico sono aumentate del 20% . Dei 70 milioni di ettari censiti su scala mondiale, l'Australia ne detiene oltre 35 milioni ed è saldamente in testa alla classifica dei paesi più orientati alla produzione biologica. Nei 28 Paesi dell'Unione Europea gli ettari coltivati a biologico sfiorano i 13 milioni e l'Italia, con quasi 2 milioni di ettari, si colloca al secondo posto dopo la Spagna, ma è prima per numero di occupati nel settore. Dal 2010 ad oggi in Italia la quota di terreni coltivati a biologico è cresciuta di oltre il 75%, arrivando a rappresentare il 15,5% della superficie agricola nazionale.

E proprio in questo momento prosegue l'iter di discussione in Commissione Agricoltura del Senato del disegno di legge N.988, approvato dalla Camera dei deputati l'11 dicembre 2018, che mira a sostenere in maniera decisa la tutela, lo sviluppo e la competitività della produzione agricola, agroalimentare e dell'acquacoltura con metodo biologico. Un testo che, a livello politico, ha finora trovato una larga maggioranza, ma che ha invece suscitato reazioni preoccupate in un'ampia cerchia della comunità scientifica italiana. Secondo il professor Defez il nodo più critico del disegno di legge è che il sostegno sia previsto non solo per l'agricoltura biologica ma anche per l'agricoltura biodinamica. "Il biodinamico non è un difficile sistema di produzione come il biologico - che parte da una posizione condivisibile come la riduzione della chimica in agricoltura - il biodinamico è tutt'altro, è veramente stregoneria", argomenta il professor Defez. "E' una pratica che capisco possa avere un fascino commerciale, ma nel provvedimento in discussione c'è una situazione paradossale, nella quale si ipotizza addirittura l'apertura di corsi universitari per insegnare il biodinamico. Si accomunano cosi un sistema come il biologico - complesso, difficile e che in alcuni casi può anche essere non penalizzante - con il sistema biodinamico che sembra davvero uscire da un altro universo. Sarebbe come far convivere Margerita Hack con qualcuno che elabora i racconti dell'oroscopo", aggiunge Defez. 


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Una soluzione per uscire dalle dinamiche del marketing e delle narrazioni e aiutare il consumatore a compiere scelte sulla base di dati reali, secondo Defez, potrebbe essere l'introduzione di un organismo indipendente che apponga un bollino neutro che certifichi la reale produzione di gas serra alimento per alimento. Inoltre, andrebbe smontata la tendenza a pensare che tutto ciò che è "naturale" sia necessariamente "buono". Un esempio sono alcune sostanze ammesse in agricoltura biologica, come il rame o gli scarti di macellazione convertiti in farine animali, che hanno un evidente impatto ambientale. 

La materia è dunque complessa perché ha risvolti diretti su due obiettivi prioritari per il futuro del pianeta, tutela dell'ambiente e necessità di cibo per un numero sempre maggiore di persone: secondo la Fao, nel 2050 per soddisfare le esigenze alimentari di 9,7 miliardi di persone sarà necessario incrementare la produzione del 60%. Restano poi altre considerazioni sullo sfondo: la necessità di garantire cibo a una popolazione che cresce non può essere disgiunta da azioni contro lo spreco alimentare che, a sua volta, incide sull'inquinamento e sulla perdita delle risorse utilizzate per produrre. A livello globale si calcola che lo spreco sia pari a 1,3 miliardi di tonnellate all'anno, un quantitativo che è pari a un terzo della produzione totale. 

 

 

 

 

 

 

 

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