SOCIETÀ

Il Caucaso meridionale e il conflitto tra Armenia e Azerbaijan

Torna altissima la tensione nel Caucaso meridionale, lungo la cerniera che separa l’Azerbaijan dall’Armenia. Proprio lì, nel mezzo, c’è la regione del Nagorno-Karabakh, nome che ai più attenti sarà noto per averlo ascoltato centinaia di volte, come un intercalare di sottofondo nei telegiornali che da trent’anni a questa parte, a periodi alterni, raccontano degli scontri e degli eccidi che proprio lì si sono verificati (come il massacro di Khojaly, nel ’92). È dal 1988 che si combatte in questa terra montuosa, senza sbocchi sul mare, abitata in maggioranza da armeni cattolici. E non perché possieda chissà quali ricchezze, ma perché la sua collocazione geografica ne fa un delicato, e prezioso, crocevia tra Asia Centrale, Medio Oriente, Europa e Russia. E perché lungo quel confine dove si sta combattendo corre una rete di oleodotti e gasdotti vitali per l’economia azera. La regione appartiene formalmente proprio all’Azerbaijan, nonostante le pretese di annessione dell’Armenia, che risalgono a ben prima della dissoluzione dell’Urss. E nonostante una autoproclamazione d’indipendenza, datata 1991, che mai è stata riconosciuta formalmente da alcun governo, ma che di fatto è stata accettata dalle parti. L’Armenia sostiene i secessionisti del Nagorno-Karabakh. L’Azerbaijan difende il suo territorio (e i suoi interessi). Uno schema di guerra che fino al 1994, con la firma di un cessate il fuoco che ha riconosciuto una sostanziale vittoria degli armeni, è costato circa 30mila vittime, oltre un milione di profughi e l’occupazione militare di sette distretti (non roba da poco: pari a circa un quinto dell’intero territorio azero, secondo stime dell’Onu), che ancora oggi consentono un collegamento diretto tra Erevan e Stepanakert, “capitale” del Nagorno-Karabakh. 

Accuse incrociate

Da allora però il conflitto è rimasto in stand-by: il Karabakh con la sua pretesa d’indipendenza, l’Armenia con le sue ambizioni di annessione definitiva, l’Azerbaijan a ostacolare qualsiasi progetto. Conflitto congelato e tutt’altro che risolto, come dimostra la nuova fiammata che a partire da domenica scorsa, 27 settembre, ha portato a nuovi scontri, con bombardamenti a Stepanakert da parte dell’aviazione di Baku. Cosa di preciso l’abbia scatenata non si sa: il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, ha dichiarato che le truppe azere hanno lanciato un’offensiva improvvisa in Nagorno-Karabakh. Il ministero della difesa azero ha invece accusato i soldati armeni di “provocazioni” nei pressi della linea del fronte, cosa che avrebbe spinto il governo di Baku a contrattaccare in difesa del territorio. Da Stepanakert filtra la notizia che tra le vittime del raid delle forze armate dell’Azerbaijan ci sarebbero anche civili. Il Ministero della Difesa azero ha invece affermato che a iniziare i bombardamenti sarebbero stati i militari armeni. Sia a Erevan (capitale dell’Armenia), sia a Baku (capitale dell’Azerbaijan), è stata proclamata la legge marziale e annunciata la mobilitazione delle forze armate, il che equivale a dichiarare lo stato di guerra. Entrambi gli schieramenti dichiarano l’abbattimento di caccia, elicotteri e droni, mentre violenti scontri sono in corso tra le truppe di terra. Il conto delle vittime dichiarate dalle parti si aggiorna di ora in ora.

Arrivano i “grandi”

Il problema, ulteriore, è che ormai non si tratta più soltanto di una questione tra Armenia e Azerbaijan: ci sono i “main sponsor”, i paesi amici, che trasferiscono nervosismi, strategie militari e “pesi” politici (e bombardamenti, e morti, e sfollati) a un livello più alto. Per semplificare: l’Armenia ha l’appoggio di Putin, l’Azerbaijan di Erdogan (che non nasconde  l’odio profondo che divide storicamente turchi e armeni). Russia e Turchia, di nuovo protagoniste su uno scenario di crisi internazionalesecondo uno schema che continua a ripetersi, diverso come contesto, ma drammaticamente simile come trama: come in Siria, come in Libia. Al punto che ormai le parti in causa si rivolgono direttamente agli “amici dei nemici”. La sera del 28 settembre l’ambasciatore armeno in Russia ha minacciato la Turchia annunciando di essere pronta a usare i missili Iskander (di fabbricazione russa) qualora Ankara avesse deciso di utilizzare i caccia F-16 per i bombardamenti, su Stepanakert. «Le forze armate armene saranno costrette ad utilizzare tutto il loro arsenale per garantire la propria sicurezza», ha dichiarato l’ambasciatore Vardan Toganyan. Ma la risposta armena dove avverrebbe? A Baku o altrove in Azerbaijan? Altrove in Turchia? 

Il “fattore Erdogan”

Un’escalation assai pericolosa. Dmitry Peskov, portavoce del presidente russo Putin, si è detto «molto preoccupato» per quanto sta accadendo nel Caucaso meridionale, chiedendo la «cessazione immediata» degli scontri. Il ministero degli Esteri russo ha invitato ambedue gli schieramenti a riprendere la strada del negoziato. Meno concilianti le dichiarazioni del presidente turco Erdogan, che in passato sulla questione era rimasto sempre sostanzialmente neutrale: «E’ arrivato il momento di porre fine all’occupazione armena del territorio dell’Azerbaijan», ha affermato. «L’Armenia deve lasciare i territori occupati: e soltanto allora la pace e la calma saranno ristabilite in Nagorno Karabakh. La Turchia resterà con ogni mezzo accanto all’Azerbaijan, paese amico e fratello». Una “vicinanza” che il presidente azero, Ilham Aliyev, aveva pubblicamente manifestato pochi mesi fa: «Il mio amore per il popolo turco non è un segreto. Non ci sono altri paesi vicini come la Turchia e l’Azerbaijan». Tra Turchia e Azerbaijan è in vigore dal 2011 un accordo che obbligherebbe Ankara a intervenire in difesa dell’alleato in caso di aggressione da parte di uno stato terzo. 

Intanto si moltiplicano gli appelli al cessate il fuoco. Dall’Iran, con il portavoce del ministero degli Esteri, Saeed Khatibzadeh: «Gli amici armeni e azeri aprano subito al dialogo». Dall’Unione Europea, con l’Alto rappresentante per la politica estera, Josep Borrell: «Chiedo l’immediata cessazione delle ostilità». Ma anche dalla Germania, dalla Francia e dagli Stati Uniti. Martedì sera è stata convocata d’urgenza una riunione, a porte chiuse, del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Che si è conclusa con un appello alla tregua e per avviare “un negoziato profondo e di contenuto". Sul perché il conflitto si sia riacceso così improvvisamente e con questa intensità (l’ultimo botta e rispostaera datato 2016, con la “guerra dei quattro giorni”) è interessante la riflessione che Nona Mikhelidze, analista dell'Istituto Affari Internazionali, ha rilasciato all’Adnkronos: «L'elemento di novità rispetto al passato è il nuovo Erdogan, per la sua inedita posizione sul Caucaso, dopo quella già assunta in Medio Oriente», sostiene l’analista. «Appena iniziati i combattimenti, la comunità internazionale ha chiesto la fine degli scontri e la pace mentre la Turchia è stato l'unico attore che ha appoggiato direttamente l’Azerbaijan. Se Il presidente della Turchia passerà da un sostegno politico a un supporto materiale, non è escluso un conflitto su larga scala», avverte l'analista. 

Il fallimento del Gruppo di Minsk

La situazione attuale certifica il fallimento, di fatto, del cosiddetto Gruppo di Minsk, la struttura nata nel ’94 per volontà dell’Osce (allora si chiamava Csce), e guidata da Stati Uniti, Francia e Russia, con l’obiettivo di incoraggiare una soluzione pacifica e negoziata dopo la guerra del Nagorno-Karabakh. Capace finora (e non sono trascorsi pochi anni) di conservare appena una fragile tregua nell’enclave contesa (in realtà spesso non rispettata, ma si è trattato finora di episodi sporadici), ma nulla di più, comunque nulla che possa avvicinarsi a un appianamento dei contrasti. Al punto che perfino Erdogan ha attaccato il Gruppo di Minsk per la sua incapacità di risolvere la questione del Karabakh. Diplomazia che per mesi ha ignorato i segnali di una tensione crescente nell’area, come racconta il New York Times.

Ma trovare la soluzione, a questo punto, non sarà semplice. C’è un groviglio di interessi regionali e internazionali, di risentimenti razziali e religiosi. Ci sono quei territori azeri da anni occupati e abitati quasi interamente dagli armeni (Baku dichiara di aver ripreso in questi giorni il controllo su 6 villaggi). Difficile, se non impossibile, trovare un compromesso tra Azerbaijan e Armenia, con gli eserciti schierati (Armenia e Turchia si stanno anche accusando reciprocamente di aver reclutato mercenari stranieri). L’unica via d’uscita è nella auspicabile fermezza della diplomazia internazionale e nella capacità di convincimento, definiamola così, di Putin nei confronti di Erdogan (i due, nonostante si trovino spesso a battagliare su fronti contrapposti, si incontrano frequentemente). Russia che peraltro si trova in una situazione di “funambolismo”, come la definisce il geografo francese Jean Radvanyi, uno dei massimi esperti di Russia: «Vende armi contemporaneamente sia all’Azerbaijan sia all’Armenia, con una piccola preferenza per quest’ultima perché ci sono degli accordi che legano Mosca a Erevan che sono un po’ più precisi e vanno un po’ più lontano degli accordi presi con Baku. La posizione della Russia, che si trova ad appoggiare entrambi i contendenti, rischia di non rendere i negoziati abbastanza efficaci». E’ evidente tuttavia che il timore maggiore, in queste ore, sia la possibilità di scivolare in un conflitto aperto tra Armenia e Azerbaijan, con il rischio di attivare un “contagio a catena” anche alle rispettive alleanze militari (l’Armenia è membro dell’organizzazione del Csto, il Trattato di sicurezza collettiva, che comprende anche Russia, Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan e Bielorussia). La Russia sarebbe obbligata a difendere l’Armenia, come la Turchia a difendere l’Azerbaijan. L’impressione è che ancora una volta sarà decisivo il ruolo di Putin, probabilmente l’unico in grado di farsi ascoltare dal “sultano” di Ankara. Ancora Mikhelidze, l’analista dell’Iai, intervistato da Formiche.net: «Mosca ha interesse a mantenere il conflitto congelato e non certo a entrare in guerra con la Turchia. Neanche Erdogan ha avuto finora interesse a indirizzarsi verso uno scenario di questo tipo. Ma adesso è diventato imprevedibile e non escludo che possa muoversi diversamente. Personalmente, con gli attuali governi, non vedo alcuna ipotesi di risoluzione. L’unica via è la gestione dello status quo mediante l’intervento di peace-keepers». 

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