Manifestazione, Washington DC. Foto: Stephen Melkisethian via Flickr (particolare)
Il 24 aprile di ogni anno le comunità armene di tutto il mondo ricordano "il grande crimine" (Medz Yeghern), ma quello appena passato resterà nella memoria soprattutto per la dichiarazione di Joe Biden. “Ricordiamo i morti nel genocidio armeno in epoca ottomana – scrive il presidente statunitense – e ci impegniamo a impedire che una tale atrocità si ripeta”. Non si tratta di un atto isolato, né completamente inaspettato: nel 2019 una mozione in questo senso era passata al Congresso e già nel 1981 il presidente Reagan aveva usato la parola genocidio in riferimento agli armeni. È però la prima volta che alla questione viene dedicato uno specifico e dettagliato statement, che cita tra le altre cose il numero delle vittime (un milione e mezzo) e la responsabilità dei carnefici: l’esito di un percorso lungo oltre un secolo, rimandato più volte negli ultimi decenni per non irritare il governo turco, componente della Nato e alleato essenziale nel Medioriente.
Un atto dal valore anzitutto simbolico, ma che potrebbe avere conseguenze anche molto concrete: non a caso anche stavolta il presidente turco Erdoğan ha tentato in tutti i modi di evitarlo, assicurando che avrebbe difeso “la verità contro la menzogna del cosiddetto ‘genocidio armeno’”. La telefonata tra i due leader, il giorno prima della dichiarazione, non ha però sortito altri effetti che la presa d’atto delle divergenze e l’impegno a incontrarsi durante il prossimo vertice dell’Alleanza Atlantica.
“L’importanza della dichiarazione è sostanzialmente nell’utilizzo della parola genocidio, che ha in sé una valenza enorme”, spiega a Il Bo Live Antonia Arslan, scrittrice di fama internazionale e tra le prime voci al mondo a far uscire la tragedia armena dal ristretto ambito delle memorie familiari e degli studi specialistici. “Adesso ad esempio potranno partire una serie di cause negli Usa da parte dei discendenti delle vittime contro lo Stato turco, finora bloccate proprio dal mancato riconoscimento da parte dell’amministrazione statunitense”. Continua Arslan: “L’atto del presidente Biden riflette e si adegua alla dichiarazione dell’Onu del dicembre 1948, nella quale la neonata organizzazione ha accettato la definizione di genocidio data nel 1944 da Raphael Lemkin, personaggio che rappresenta il nesso tra genocidio armeno e quello ebraico. Ebreo polacco, avvocato e giurista, Lemkin nel 1921 si accorge che la tragedia armena ha caratteristiche uniche che la distinguono da ogni altra: per questo negli anni successivi cerca di diffondere questa percezione, senza che però nessuno gli credesse”.
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Pochi insomma lo sanno, ma il termine genocidio è stato coniato da Lemkin pensando proprio agli armeni, diversi anni prima che la Shoah spazzasse via la sua stessa famiglia. Anche per questo sul punto è intervenuta l’Assemblea dei Rabbini d’Italia (ARI), che per bocca del presidente Rav Alfonso P. Arbib ha recentemente affermato che “il Genocidio Armeno, la cui memoria è fondamentale e preziosa, esige l’impegno di noi tutti, con fermezza e chiarezza. Questo 24 aprile, come il 27 gennaio per la Memoria della Shoà, noi ricordiamo e chiediamo a tutti di unirsi a noi, nell’assumere la responsabilità di combattere vecchi e nuovi negazionismi, rendendo testimonianza di questo atroce crimine”.
Con gli Stati Uniti oggi sono appena 30 i Paesi che riconoscono ufficialmente il genocidio armeno (tra cui l’Italia), ma con la presa di posizione ufficiale dell’amministrazione americana le cose potrebbero cambiare. “Ci si può chiedere se Biden volesse colmare un vuoto di verità e di riconoscimento o se tutto vada inserito in una più generale offensiva contro i governi autoritari – è l’analisi di Aldo Ferrari, docente a Ca’ Foscari di lingua e letteratura armena e responsabile presso l’ISPI di Milano delle ricerche su Russia, Caucaso e Asia centrale –. Probabilmente si tratta delle due cose insieme; senza fare troppa dietrologia prendiamo però l’aspetto positivo: si tratta di un riconoscimento importantissimo, destinato probabilmente ad essere seguito da molti altri Paesi”.
“Probabilmente la Turchia è meno importate e meno utile all’America rispetto ad anni passati – continua Ferrari –, ma bisogna tener presente che Biden, qualsiasi giudizio se ne voglia dare, ha comunque mantenuto fede alle promesse fatte in campagna elettorale di insistere maggiormente sui diritti umani nelle relazioni internazionali, affrontando anche in maniera poco diplomatica i regimi e arrivando persino a dare dell’assassino a Putin. Ora tocca alla Turchia essere toccata su un nervo scoperto; in ogni caso il presidente sta portando avanti un’opera di chiarificazione della politica estera statunitense, che viene così ricollocata con forza sui valori democratici e liberali”.
“ Biden sta mantenendo fede alla promessa di insistere sui diritti umani nelle relazioni internazionali
L’atto di Biden tocca un altro aspetto specifico dello Medz Yeghern, che è quello di continuare ad essere pervicacemente negato. “Oltre a rifiutare ai sopravvissuti e ai loro discendenti il diritto di ritornare in patria e di reclamare i beni confiscati, per un intero secolo la Turchia ha infatti operato consapevolmente e con tutti i mezzi a disposizione di uno Stato moderno per ridurre, deformare o persino cancellare la stessa memoria della millenaria presenza armena nei territori anatolici – scrive Ferrari nel libro L'Armenia perduta. Viaggio nella memoria di un popolo (Salerno editrice 2019), resoconto di un viaggio nei luoghi della memoria armena –. È stata una politica coerente e sistematica, che ha provocato tra gli Armeni uno stato d’animo di frustrante e disperata privazione”.
Per quanto riguarda le possibili reazioni del governo turco a livello internazionale, Ferrari ritiene che saranno limitate: “Erdoğan ha già risposto per le rime, ma alla fine che può fare? Anche con Francia, Germania e Italia alla fine ha dovuto abbozzare. Per questo finora è stata ancora più vergognosa la timidezza e la pigrizia di chi non ha riconosciuto il genocidio armeno, di fronte a un Paese che come la Turchia non aveva nemmeno un reale potere di ritorsione”.
A livello interno invece le conseguenze sono imprevedibili, e potrebbero andare addirittura nella direzione di un ulteriore giro di vite contro le minoranze. Garo Palyan, deputato turco di origine armena dell’HDP (Partito della democrazia dei popoli) ha addirittura presentato al parlamento di Ankara una legge per il riconoscimento del genocidio armeno, ma come risposta è stato minacciato da un collega parlamentare. E non si tratta solo di Erdoğan: la dichiarazione di Biden è stata infatti condannata anche dal più grande partito di opposizione, il CHP (Cumhuriyet Halk Partisi, Partito Popolare Repubblicano), laico e socialdemocratico ma allo stesso tempo fieramente kemalista. Con il riconoscimento del genocidio ad essere attaccato è lo stesso fondamento ideologico del moderno Stato turco, la sua pretesa di incarnare un popolo essenzialmente omogeneo, unico ed esclusivo padrone dell’Anatolia. Una pesante eredità da cui non sarà tanto facile liberarsi.