Tutti abbiamo visto e rivisto il breve video che documenta il crollo del ponte Morandi a Genova (14 agosto 2018). La ripresa della telecamera di controllo, moderna versione della cinepresa dei fratelli Lumière, ci mostra in una manciata di secondi il consumarsi della catastrofe. Ciò che più impressiona in questa ripresa è il subitaneo ritiro di una grande ombra a sinistra dell’inquadratura: è l’ombra che il ponte proiettava sull’asfalto sottostante e che ora all’improvviso scompare. Un dettaglio che probabilmente nessun operatore avrebbe pensato di (e probabilmente neppure potuto) cogliere e che qui ci viene restituito dall’automatismo della ripresa, nel tempo disorientante e tragico del compiersi dell’evento.
“ Il cinema ha sempre cercato di attrarre spettatori offrendo la visione di eventi catastrofici
Il cinema ha sempre cercato di attrarre spettatori offrendo la visione di eventi catastrofici, sia ripresi dal vero, sia ricostruiti con l’ausilio dei tecnici degli effetti speciali. Fra tutti i manufatti di architettura, il ponte è quello che probabilmente ha più attratto il cinema. La costruzione di un ponte non meno che il suo crollo e la sua distruzione sono eventi di grande impatto.
La nascita di un nuovo ponte è un tema trattato da innumerevoli documentari i quali dimostrano che il cinema può raggiungere livelli di grande spettacolarità limitandosi a far vedere i prodigi dell’ingegneria. La costruzione di un ponte è una sfida alle leggi di gravità e la realizzazione delle fantasie di volo, opportunamente enfatizzate dalle tecniche di ripresa e montaggio.
Tra i vari documentari realizzati sulla costruzione dell’Akashi Kaikyo (Giappone), che viene considerato il ponte sospeso più lungo del mondo, vorrei ricordare World's Longest Bridge (2004) di Rod Pyle, per la serie Modern Marvels. Vi consiglio ti tenere d’occhio History Channel, il canale che tempo addietro lo ha proposto: con un po’ di fortuna potrete imbattervi in una replica.
Né meno spettacolari sono i documenti filmati sul crollo di un ponte. Il documentario di maggior impatto su questo tema è probabilmente una breve pellicola, a colori, dal titolo Tacoma Narrows Bridge Collapse (1940), della durata di otto minuti circa. Si tratta di un caso di crollo di un ponte sospeso nello stato di Washington, avvenuto a pochi mesi dall’inaugurazione, che ha aperto inquietanti interrogativi in tema di sicurezza dei ponti sospesi e che ha a lungo impegnato ingegneri e matematici nella ricerca delle cause del fenomeno.
Questo memorabile caso è stato oggetto di un seminario (affollatissimo di matematici e ingegneri) tenuto lo scorso anno alla Scuola Galileiana dal prof. Filippo Gazzola del Politecnico di Milano (8 marzo 2017). Ricordo esattamente la circostanza perché quel giorno, terminai la mia lezione con un quarto d’ora d’anticipo per poter partecipare a quel seminario che prometteva, oltre che l’illustrazione di ipotesi matematiche e ingegneristiche sulle cause dell’evento, per le quali non avevo evidentemente le competenze necessarie, la proiezione di filmati rari.
Alla fine del seminario ringraziai calorosamente il prof. Gazzola per avermi fatto conoscere delle riprese cinematografiche straordinarie che confermavano l’importanza del cinema non meno che della matematica per lo studio e la comprensione di fenomeni estremamente complessi e di difficile interpretazione.
Ciò che maggiormente interessa il mio punto di vista di studioso di cinema, è lo shock percettivo prodotto dalla ripresa cinematografica, dove l’immagine si forma meccanicamente, senza l’intervento dell’uomo ma nella quale la fragilità delle cose e degli individui si rivela con una evidenza che nessuna messa in scena potrebbe uguagliare. In questo caso poi il dato percettivo, già di per sé stesso sconvolgente, si combina con i significati simbolici legati alla figura del ponte, ma anche al ruolo della tecnica, nel nostro immaginario: il crollo di un ponte rivela la caducità delle cose umane (e niente lo dimostra meglio delle drammatiche riprese del crollo del ponte Tacoma), ma può documentare anche, come abbiamo appreso in questi giorni, omissioni, colpevoli negligenze e incurie, se non veri e propri errori.
Spostandoci dal documentario alla finzione letteraria e cinematografica, ci troviamo di fronte al grande fascino esercitato dalla figura del ponte nel nostro immaginario. Il ponte di San Luis Rey (1927 di Th. Wilder è probabilmente il romanzo più famoso mai dedicato ad un ponte e quello che può vantare il maggior numero di versioni cinematografiche. Le ragioni di questo successo vanno cercate più nella teologia che nella tecnica. Il romanzo di Wilder si apre con questa frase «Il venerdì 20 luglio 1714, a mezzogiorno, il più bel ponte del Perù si spezzò, precipitando cinque viaggiatori nell’abisso circostante». L’evento induce il protagonista del romanzo, il teologo francescano frate Ginepro, ad intraprendere un’accurata indagine per individuare i legami tra la vita condotta dalle cinque vittime e quel fatale esito, nel tentativo di scoprire i disegni della Provvidenza e di comprendere il ruolo da essa svolto nel determinare le vicende umane. Si tratta di una questione di estrema gravità filosofica e teologica che rinvia al tema della hybris (nella cultura greca, l’atto di superbia e prevaricazione dell’uomo nei confronti del volere divino) che direttamente o indirettamente viene associato alla figura del ponte. Detto in altri termini, l’attraversamento di un ponte, indipendentemente dal livello tecnico della sua costruzione, viene vissuto come giudizio di Dio.
È significativo che il romanzo di Wilder abbia finora avuto ben tre versioni cinematografiche. L’ultima in ordine di tempo, Il ponte di San Luis Rey (2004) di Mary McGuckian, non ha ottenuto i risultati attesi, forse perché eccessivamente basata sul gigantismo dell’impresa produttiva e sul divismo degli interpreti (Robert De Niro, F. Murray Abrahms, Geraldine Chaplin, Harvey Keitel). O forse perché di fronte a eventi di questo tipo non sono i quesiti teologici che attirano maggiormente l’interesse del pubblico odierno.
Al contrario, Il ponte sul fiume Kway (1957), interpretato da un grandissimo Alec Guiness e diretto da David Lean, è probabilmente il film su un ponte più famoso e più osannato della storia del cinema (ottenne nel 1958 ben otto premi Oscar e continua ad essere riproposto dai canali televisivi). Madness! Madness! (Pazzia! Pazzia!). Con questo desolato commento del maggiore Clipton (James Donald), ufficiale medico del reparto inglese tenuto prigioniero dai giapponesi, si conclude il film. Non si tratta di una generica condanna dei disastri della guerra, ma di un preciso riferimento all’assurda vicenda narrata nel film e tutta incentrata sulla costruzione di un ponte e sulla sua distruzione, entrambi ad opera degli stessi alleati (inglesi e americani).
Tra i film di guerra sulla costruzione e distruzione di un ponte, Il ponte sul fiume Kway è quello che si spinge più avanti nella messa in relazione dell’impresa inscenata sul piano del racconto e l’impresa della produzione del film: la costruzione del ponte coincide con la messa in opera del set, e la sua distruzione con la distruzione del set stesso. La simulazione di eventi che non hanno luogo se non nella dimensione fittizia e illusoria del trucco cinematografico risulta qui capovolta: ai tecnici degli effetti speciali è affidato il compito di rendere visibili, di accrescere il valore spettacolare di eventi effettivamente realizzati davanti alla cinepresa. Il ponte viene davvero costruito e viene davvero distrutto. Gli effetti speciali non sono trucchi per visualizzare qualcosa che non ha luogo, ma al contrario per dare la massima visibilità all’impresa costruttiva e distruttiva.