SOCIETÀ

La città dopo la pandemia: spunti per una discussione

Questa riflessione, relativa agli effetti della pandemia sulla città, non ha l’ambizione di offrire soluzioni ai complessi problemi da affrontare, ma soltanto spunti per una discussione interattiva tra studiosi. Tale discussione avrà l’obiettivo di delineare possibili scenari di cui dovranno essere verificate l’attendibilità e la realizzabilità. Naturalmente, nel parlare dei problemi sulla città, partirò dalla letteratura più aggiornata in materia; la quale, a mio avviso, è condensata nel libro di Cristoforo Sergio Bertuglia e Franco Vaio Il fenomeno urbano e la complessità, pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2019.

 

Il mondo è diventato ormai un sistema unico, caratterizzato da una complessità crescente.

Considerazioni generali sugli effetti della pandemia

La prima considerazione che mi viene in mente, riflettendo sul fenomeno pandemico, è che il mondo è diventato ormai un sistema unico, caratterizzato da una complessità crescente. Un virus sviluppatosi in Cina si è propagato in un tempo brevissimo con effetti devastanti in tutto il mondo. È come se fossimo tutti avvolti in un’unica gigantesca ragnatela cui non si può sfuggire; altro non è che l’effetto della globalizzazione e dell’interconnessione mondiale tra i vari Paesi, che crea interdipendenze di cui bisogna tener conto e che bisogna governare.

La pandemia del 2020, così come la recessione economica mondiale nel periodo 2007-2013, è stata innescata da un fenomeno locale; questi eventi sono l’evidenza empirica dell’effetto butterfly che caratterizza i sistemi dinamici non lineari, a cui il mondo intero può essere assimilato. Immaginificamente, si dice che il battito di ali di una farfalla in Cina può provocare un tifone negli Stati Uniti. È l’effetto della complessità che impone un diverso approccio alla soluzione dei problemi.

 

L’esplosione della pandemia ha clamorosamente messo in discussione l’attuale modello di sviluppo, fondato su una globalizzazione sfrenata e legato a un uso discutibile delle risorse, che ha portato all’ipersfruttamento dell’ambiente e a crescenti disuguaglianze. A questo proposito, mi torna in mente la vicenda del Club di Roma, animato da Aurelio Peccei, il quale, circa 50 anni fa, commissionò al Massachusetts Institute of Technology di Boston uno studio sul futuro dell’umanità. Questo studio, uscito nel 1972 in Italia con il titolo I limiti dello sviluppo, conteneva un’analisi scientificamente fondata dei possibili scenari di lungo periodo relativi allo sviluppo mondiale. Il rapporto non ebbe molto successo e anzi fu molto criticato, se non osteggiato, per cui i suggerimenti in esso contenuti non ebbero alcun seguito. Era troppo in anticipo rispetto alla cultura prevalente dell’epoca, nonché in contrasto con gli interessi industriali dominanti.

Eppure, quel rapporto era il primo tentativo di guardare avanti di alcuni decenni e forniva, contestualmente, le indicazioni per evitare le conseguenze economiche e ambientali di lungo periodo, quelle stesse con cui oggi ci troviamo a fare i conti.

Una seconda riflessione è che la pandemia ha posto in termini nuovi il rapporto tra scienza e politica evidenziando l’esigenza che le scelte operate da chi ha la responsabilità decisionale siano basate sulle competenze piuttosto che sull’emotività e sulla ricerca del consenso di breve periodo. L’ineludibile apporto della ricerca scientifica e la conseguente necessità di adeguati investimenti, in particolare in Italia, sono emersi in tutta la loro evidenza, creando una nuova consapevolezza nella stragrande maggioranza dell’opinione pubblica. Questa è certamente una ricaduta positiva della pandemia.

Un altro tema di grande rilievo e di difficile approccio è il rapporto tra salute ed economia.

Questi due aspetti della vita collettiva sono considerati in contrapposizione, perché il dibattito è ancorato a una logica di breve termine. In realtà, se si alza lo sguardo, ci si rende conto che la salute della popolazione è una precondizione essenziale a una crescita economica duratura. Resta, naturalmente, il problema non semplice di gestire il transitorio fino a quando non saremo usciti dallo scenario pandemico, non solo come Paese ma come comunità mondiale.

Tuttavia, non mi sembra che, per almeno un paio di anni, esistano altre vie praticabili.

Naturalmente, queste problematiche investono l’intero territorio ma sono più rilevanti nelle città, dove la densità della popolazione amplifica i disagi e rende necessario un ripensamento della loro organizzazione e gestione.

La città è un sistema complesso

La città e la pandemia

Per parlare di questo rapporto è necessario partire da un dato di fatto ormai acquisito: la città è un sistema complesso. È un sistema caratterizzato da numerose componenti qualitativamente diverse tra loro e da numerose interconnessioni non lineari tra le componenti stesse. Questo significa che la totalità di un sistema è più che la somma delle singole parti.

Partendo da questo approccio si sono sviluppati negli ultimi cinquant’anni studi a livello internazionale che analizzano la città da vari punti di vista: sociologici, antropologici, economici, urbanistici, filosofici, storici. Il citato libro di Bertuglia e Vaio è un distillato di tutti questi studi e costituisce una sorta di enciclopedia del sapere sul fenomeno urbano e sui vari modi di ripensare la città.

La pandemia, quindi, è arrivata in un momento in cui il ripensamento della città era già in corso per rispondere alle sfide poste dalle istanze di sostenibilità ambientale, dalle opportunità offerte dalla digitalizzazione e dai problemi delle periferie legati all’inclusione sociale e all’integrazione.

La domanda da porsi a questo punto è: la pandemia ha accelerato alcune tendenze già in atto o ha messo in discussione le idee e le prospettive sul futuro della città? Io credo che siano vere entrambe le cose.

Certamente la pandemia ha impresso una forte accelerazione a fenomeni urbani in atto.

Il lavoro a distanza ne è un esempio tipico, con tutte le implicazioni sull’organizzazione funzionale della città. 

Allo stesso tempo, la pandemia indurrà a rivedere alcune idee sullo sviluppo urbanistico. 

In proposito, è opportuno ricordare che le città generano gran parte della ricchezza, ma, al contempo, sono fonte di inquinamento. Secondo le proiezioni ONU, nel 2050 due persone su tre vivranno in città, ragione per cui l’obiettivo 11 dell’Agenzia ONU per lo sviluppo sostenibile prevede di rendere per il 2030 le città inclusive, sane, resilienti e sostenibili.

Questo obiettivo acquista una particolare rilevanza e un particolare significato alla luce della pandemia in corso, che ha messo a dura prova soprattutto la vita urbana, evidenziando una serie di nuove criticità che richiedono la messa in atto di strategie adeguate a fronteggiarle.

Relativamente al nostro Paese, una prima questione riguarda proprio il sistema sanitario. La gestione della pandemia ha evidenziato che, se il principio del nostro welfare universale è all’avanguardia nel mondo, il sistema che dovrebbe tradurlo in pratica è carente, anche a causa delle politiche sanitarie adottate negli ultimi anni.

Nella città, medicina di base, poliambulatori di quartieri, ospedali specialistici, policlinici devono essere in rete per consentire lo svolgimento delle funzioni loro assegnate, nonché per esercitare funzioni nuove, come la telemedicina. Occorre, cioè, una gestione sistemistica che le moderne tecnologie digitali rendono possibile e che la pandemia ha in parte contribuito ad avviare.

Una seconda rilevante questione è la sempre più accentuata propensione al lavoro remoto, oggi reso necessario dalla pandemia, ma che diventerà una modalità di lavoro sempre più diffusa e permanente. Questo fenomeno avrà significative ricadute in vari settori: mobilità, commercio, assetto urbano.

La mobilità individuale e collettiva cambierà in termini quantitativi e qualitativi, con conseguente necessità di adeguamento del sistema dei trasporti. Ma il lavoro da remoto, come sta già emergendo durante la pandemia, avrà un impatto anche sul commercio di quartiere, legato per esempio ai servizi di ristorazione, che vedono una riduzione della domanda.

Infine, le grandi Compagnie (banche, assicurazioni, aziende finanziarie e di servizio) scopriranno di aver bisogno di meno spazi per gli uffici, mentre crescerà la necessità di maggiore spazio nelle abitazioni private per adeguarle alla nuova modalità di lavoro. A edifici meno spaziosi degli uffici corrisponderà la richiesta di case più grandi, con la probabile tendenza, anche per ragioni di costo, ad andare ad abitare in periferia. Questo fenomeno comporterà una revisione dello sviluppo dei quartieri e, quindi, della città.

Il lavoro da remoto, inoltre, potrebbe creare opportunità, come nuove destinazioni abitative, anche per le piccole città e le aree rurali, una volta assicurata un’affidabile connessione alla banda larga.

La pandemia, infine, ha accelerato la tendenza all’acquisizione a distanza di beni e servizi, con conseguente ulteriore riduzione della mobilità coatta e del relativo impatto, in prospettiva, sui trasporti, sulla logistica e sull’infrastruttura informatica.

Questi cambiamenti, accelerati o resi necessari dalla pandemia e possibili grazie alla tecnologia, diventeranno permanenti e imporranno anche un ripensamento della progettazione, dell’organizzazione e della gestione complessiva delle città nella direzione auspicata dall’ONU. Mi sembra di intravedere, in questa tendenza, una visione che Corrado Beguinot, professore di Urbanistica presso l’Università di Napoli Federico II, scomparso nel 2018, aveva anticipato circa quarant’anni fa e che, allora futuribile, diventa oggi quanto mai attuale.

La ormai prossima tecnologia 5G apre prospettive impensabili, anche solo un decennio fa: si tratta, ora, di realizzare la città cablata del XXI secolo, delineata da Beguinot negli anni ’80, che contiene dieci principi fondamentali per una nuova urbanistica.

Prendendo a prestito la sua visione, dirò che la città è un sistema dinamico, che può essere interpretato in tre modi: come città di pietra, come città delle relazioni e come città del vissuto.

La città di pietra è la città fisica, di case e di cose, in cui si organizza lo spazio in funzione delle esigenze umane.

La città delle relazioni si riferisce alle attività e alle conseguenti relazioni che si svolgono e che si stabiliscono nella città di pietra.

La città del vissuto è l’immagine che gli abitanti percepiscono della città e di come la vivono.

In buona sostanza, essa è il luogo del rapporto uomo-habitat. 

Questa sembra essere la metafora più appropriata per descrivere il contesto nel quale ci muoviamo.

La differente velocità di evoluzione di queste tre dimensioni è la causa primaria della crisi delle metropoli e del malessere degli abitanti. Gli aspetti più evidenti del disagio sono: mobilità coatta, degrado e assuefazione ad esso, diseconomie, invivibilità, insicurezza, incapacità decisionale, sperpero di risorse, rabbia sociale.

La città cablata del XXI secolo è concepita per uno sviluppo equilibrato e coordinato delle tre città, caratterizzato non più dalla casualità allocativa, dalla logica additiva e dalla cultura dell’espansione, ma dal riuso e recupero dell’esistente e da un uso intelligente della tecnologia.

Questa visione chiama in causa un concetto fondamentale nel governo della città: l’interdisciplinarità.

Se vogliamo comprendere e governare il fenomeno urbano occorrono non solo architetti e urbanisti, ma anche storici, filosofi, antropologi, psicologi, economisti, climatologi, etologi, epidemiologi e infine politici. Le discussioni cui abbiamo assistito durante la pandemia confermano questa necessità.

Affinché l’insieme di queste competenze si traduca in un approccio realmente interdisciplinare, è necessario guardare ai problemi con uno sguardo trasversale rispetto alle singole discipline, in grado di creare un ponte tra di esse. Per prendere decisioni, auspicabilmente buone, abbiamo bisogno non solo del microscopio e del macroscopio, ma anche di quello strumento che qualcuno ha chiamato ‘lateroscopio’.

Mi sembra questo l’approccio più illuminato per cercare di migliorare la qualità della vita urbana.

Conclusioni

A conclusione di queste riflessioni, occorre prendere atto che la pandemia ha fortemente limitato la vita urbana, ma ha anche fatto emergere nuove forme di aggregazione rese possibili dalla tecnologia di internet.

La città si è riorganizzata e sono emerse possibilità di trasformazione precedentemente impensabili. La pandemia può essere un’occasione per aggiornare il governo del territorio, indirizzandolo verso una concezione della città più moderna, più attenta all’uso delle risorse e all’eliminazione delle disuguaglianze. In una parola: più bella. Una città che, oltre ad essere più efficiente e funzionale, rifletta anche il mondo interiore dei suoi abitanti. Sono questi gli obiettivi cui l’urbanistica è chiamata a dare risposte credibili per il futuro.

 

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